L’esordio di Sigurðsson avviene a Venezia 74, con il secondo film il concorso nella sezione Orizzonti durante la prima giornata del festival.

Dopo che Asti viene cacciato dalla moglie che lo accusa di tradirla e gli viene preclusa la possibilità di vedere sua figlia, si trasferisce momentaneamente nella casa dei genitori per prepararsi allo scontro legale, rimanendo però coinvolto nella faida con i vicini di casa.

L’esordio del regista islandese sembra abbastanza solido, con un soggetto non troppo complesso alla base ma comunque intrigante e un approccio misurato, e infatti non presenta sbavature di fondo, finendo però nell’estremo opposto. In sostanza, pur durando nemmeno i canonici 90′, risulta comunque frammentato nella narrazione. Inizia veloce e non si ferma, alzando sempre più il ritmo, quasi avesse paura di annoiare, e in questo modo Sigurðsson penalizza se stesso e la sua opera, non riuscendo mai a dare quel senso di ampio respiro che avrebbe svolto la funzione di cassa di risonanza per la messa in scena di Undir trènu. Sotto all’albero del titolo si svolge la maggior parte della narrazione, che fin dai primi minuti vede primeggiare la faida tra il vicinato sulla crisi coniugale. E se questa viene portata sulla schermo in modo compatto, lo stesso non si può dire per la prima.

Al netto delle disparità tra le due storyline, però, va detto che il collante che le tiene avviluppate è un semplicismo di fondo: la lite tra Asti e consorte è sì ben gestita, ma altrettanto collaudata, tant’è che i momenti topici del conflitto sono quelli che siamo sempre abituati a vedere, senza variazioni nemmeno nella realizzazione. La vicenda principale, che poi è di fatto l’anima del film, invece sprigiona insicurezza. Si compone di piccoli sketch uno di seguito all’altro, che consistono negli sgarbi che le due coppie si fanno vicendevolmente non volendo arrendersi, per scivolare poi in una spirale di violenza irrefrenabile. Il punto è che la dinamica della stessa manca di grazia, è invece frenetica e affastella uno dietro l’altro discussioni e dispetti, la metà dei quali non era affatto necessaria. La parte più interessante, ovverosia quella dello psicologismo borghese (il modello è palesemente Haneke) è relegata a pochi attimi e dunque eclissata dai vari meccanismi narrativi della lenta discesa.

Di per sé l’opera non è dunque né originale né tantomeno armonica, ma riesce a creare dei bei momenti, ben riusciti, che però nella totalità della narrazione si perdono. Tutto sommato quei due o tre momenti grotteschi tra un passaggio e l’altro funzionano, e il finale riesce a dare (pur con qualche espediente facilone) quella scossa emotiva che è mancata un po’ a tutto il film, con la sua esplosione di violenza fisica e un risvolto nerissimo. Tendente al mediocre e immaturo, ma comunque pieno di buone intenzioni e non inguardabile.