La sezione fuori concorso della 74esima Mostra del Cinema di Venezia apre quest’anno con Zama, ottavo lungometraggio dell’argentina Lucrecia Martel, che questa volta esula dalle tematiche usuali della regista.

Diego de Zama è un alto ufficiale della Corona spagnola di stanza in Sudamerica che ciononostante vive in condizioni di indigenza sottostando ai vari governatori che si succedono di volta in volta, ubbidendo docilmente pur di guadagnarsi il diritto di chiedere un trasferimento in una città più consona alla famiglia che ha appena messo su con una indigena.

Zama è uno straniero, fedele alla Corona ma nato lì dove opera, senza legami, senza niente, come spesso viene ricordato dalle battute che lo scherniscono, e per questo nel film non riesce a trovare spazio nel contesto: è sempre in primo piano o in profondità di campo rispetto agli altri personaggi che interloquiscono con lui, se non completamente isolato, visivamente parlando. Porte e zanzariere precludono allo spettatore la possibilità di riuscire a collocarlo, mentre Zama deve trovare se stesso a forza in questo ambiente che non comprende. Da servo ligio al dovere deve evolversi a fedele, deve credere nel ruolo che ricopre, quello di corregidor, sperando, prima di tutto. Spera che un giorno Sua Maestà approvi il suo trasferimento per crearsi una nuova vita che possa rimediare alla piccolezza umana che rappresenta.

Zama è, nel ritratto dell’insieme, una sorta di incarnazione del passato latino. Martel cerca di delineare attraverso il protagonista una sorta di entità che riesca a tenere assieme passato e futuro della genesi del mondo latino, oramai fondamentale anche nella sfera economica mondiale. Quella totale negazione che la cultura spagnola ha sempre dovuto affrontare, ovvero quel rifiuto costitutivo per i difetti radicati nel sistema non è nient’altro che il rifiuto ridondante che Zama subisce continuamente da qualsiasi donna, dalla protetta che lo tradisce alla nobildonna che lo abbindola fino alla madre del suo stesso figlio che lo allontana con sprezzo. Gli anni passano e la lettera promessa continua a non arrivare, tanto che la creatura della Martel non può che virare verso gli appigli identitati, oramai tutto ciò che è si reduce alla mera opposizione con il pericoloso fuggiasco Porto. Non diversamente da ciò che succede di solito, l’unica fuga rimane il miraggio, il sogno di un impossibile riscatto. Zama calpesta ed è calpestato allo stesso tempo, è il perfetto prodotto delle aspriazioni della sua classe sociale e non può fare a meno che infierire ulteriormente.

In conclusione, Zama si riassume perfettemente nel suo titolo perchè il protagonista è il film, un film lievemente tirato, anche se sono riscontrabili scopi nella sua stiracchiatura, nel tentativo di trasmettere la prigionia pre-borghese, ma anche un film che getta uno sguardo lucido sul passato e sul futuro del mondo latino, sulle sue contraddizioni e sull’enorme peccato originale, qui rovesciato per colpire in modo grottesco, dei conquistadores. Diego de Zama è invece un corregidor, la sua variante impiegatizia, triste, e forse per questo più popolare.