A ottant’anni dalla prima esecuzione italiana, La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero chiude la stagione lirica 2023/2024 del Teatro La Fenice. Tratto dall’omonimo dramma di Calderón de la Barca, venne composta tra il 1940 e il 1941, asciugando notevolmente il testo originale, ma aggiungendovi tre madrigali dalle Rime di Giovan Battista Marino e un sonetto di Antonio Pucci. Eliminando il riferimento alla Polonia, rimane un mondo indefinito, senza luogo né tempo, in cui i due protagonisti maschili, il Re e il Principe che perdono il nome proprio, diventano archetipi. Vengono eliminate alcune trame secondarie per concentrare tutta l’attenzione sulla metamorfosi del Principe: recluso in una torre dal genitore per un profetizzato regicidio, verrà condotto addormentato alla reggia dove sarà sovrano per un giorno, tornerà poi in prigione e sarà liberato per volere popolare.
La partitura risente certo del contesto storico in cui nacque, piena com’è di sonorità cupe e torbide che gettano dubbi sulla magnanimità di questo nuovo monarca eletto vox populi. Il critico Erwin Völsing nota, infatti, che la vicenda si conclude non con una triade perfetta, ma con un accordo dissonante, come se del Male irrisolto sia rimasto nel Principe, in una concezione agli antipodi dal lieto fine di Calderón. Eppure, mentre Maria Egiziaca lo scorso marzo ci fece riscoprire un Respighi che ancora sa parlare al nostro tempo, questo titolo oggi, ma leggendo le critiche coeve anche allora, non ha più nulla da dire. Condivido il giudizio dell’anonimo B. che sulla “Gazzetta di Venezia” del 27-28 aprile 1944, il giorno successivo al debutto alla Fenice, marcava la discrepanza tra “l’eloquente pathos sinfonico” e le voci, “sacrificate, umiliate, in un continuo, arbitrario e – alla fine – illogico declamato”. La staticità melodica che caratterizza i solisti e la polifonia monocorde dei madrigali corali ne fanno un lavoro che mal si adatta all’orecchio moderno.
Il regista Valentino Villa non sfrutta né l’enorme portata onirica e analitica del testo né il rapporto travagliato padre-figlio, ma lascia scorrere gli eventi secondo lo sguardo del protagonista. Cosa sogna il Principe? Se è quello che vediamo, trattasi di pura realtà, in quanto non c’è alcun tratto assurdamente immaginario in scena, eccezion fatta per il suo doppio che ascende al trono nel terzo atto. Unico moto in avanti è l’arrivo del Principe alla corte barocca, fucina della conoscenza, dove Villa cita l’uomo vitruviano di Leonardo e La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp di Rembrandt (ma anche l’Ettore di Mamma Roma che richiama a sua volta il Cristo morto di Mantegna). Lo scenografo Massimo Checchetto crea una struttura cilindrica aperta e rotante, dentro dorata, fuori grigia, all’uopo torre e reggia. I costumi di Elena Cicorella sono chiaramente seicenteschi, tra la Spagna di Velázquez e le Fiandre, ma vanno bocciati senz’appello le cuffiette del coro e la mise del Principe, ridotto in boxer di pelle rossa, una sorta di harness articolata a mo’ di catene e una coperta cadente sulla spalla. Le luci di Fabio Barettin, che paiono uscite dal miglior Caravaggio, tagliano le scene in suggestivi chiaroscuri.
Sul piano musicale, la lettura felice di Francesco Lanzillotta, alla guida dell’Orchestra della Fenice, porta in buca le luci e le ombre del rivisitato Seicento spagnolo, trovando sempre il giusto equilibrio tra voci e strumenti, riuscendo, grazie al dosaggio tra timbri e agogiche pertinenti, a non affondarci nella mestizia del mare malipierano.
Nel ruolo del Principe c’è Leonardo Cortellazzi, curiosamente anche qui a petto nudo come in Cefalo e Procri del 2017. La vocalità importante, ben calibrata, restituisce un personaggio pienamente approfondito. Ottimo anche il Re di Riccardo Zanellato, intenso e dolente. Malipiero prescrive un soprano per Diana, ma qui viene affidato al mezzosoprano Veronica Simeoni, parte al limite del suo registro. Completano la compagnia Francesca Gerbasi (Estrella); Levent Bakirci (Don Arias e uno della folla); Simone Alberghini (Clotaldo) ed Enrico Di Geronimo (il servo di Diana e uno scudiero del re).
Ben curati gli interventi del coro, diretto da Alfonso Caiani, ma scenicamente poco funzionale.
Teatro pieno alla replica del 05 novembre.
Luca Benvenuti