Non lasciare tracce, impronte, segni visibili del proprio passaggio. Questo è il mantra che un Ben Foster versione veterano con tanto di PTSD continua a ripetere a se stesso e alla figlia Tom nell’ultimo film di Debra Granik, presentato al Sundance 2018 in inverno e a Cannes nella primavera dello stesso anno, tanto era stato il successo di critica. E in effetti a ben otto anni da Winter’s bone che così bene aveva rivolto uno sguardo inedito a quel southern drama di fatto codificato dalla prima fase del cinema indie americano post 2001, per una pellicola in netta continuità per tematiche – crisi del sogno americano, focus sui “dimenticati” – s’avvertiva un ceto interesse. Si parla dopotutto di una scuola cinematografica che è da qualche anno lì lì per compiere un decisivo passo in termini di evoluzione ma che ormai stenta a trovare i presupposti autentici per la seconda ondata.

Veniamo al sodo: Senza lasciare traccia è l’ennesimo passo malfermo che conserva gli obiettivi di cui sopra. Non si tratta di un’opera mediocre fino in fondo, ma fa permeare la sensazione di un film senza autonomia, una pellicola di transizione che si dota di senso solo se ipercontestualizzata, come stiamo facendo noi ora. Di transizione come i protagonisti, mai fissi in un sol luogo, nomadi per scelta. Anche contro la legge, la decisione è quella di fuggire, di vivere isolati lontano dalla gente e dall’elettricità. Il discorso di Granik coinvolge proprio il topos della fuga dalla civiltà per andare a scandagliare un sentimento che non è solo escapismo; è anche quello, ma coinvolge in sé qualcos’altro, difficilmente definibile a un primo sguardo, ma tale da perdere quasi ogni attrattiva già dal secondo. L’escamotage che meglio coglie questa differenziazione è la riscrittura in termini quantomeno neutri se non addirittura positivi dei servizi sociali, mai caricati di una funzione antagonistica. La burocrazia di cui vittime e promotori non è per questo meno asfissiante, ma il loro agire non è mai freddo, distaccato. Il fatto che la sensibilità che ostentano non sia comunque presa in considerazione da parte del duo (specie dal padre) segnala sì la volontà di scappare ma non nel senso classico. Il loro non è tanto un rifugiarsi quanto un rifuggire, determinato per contrasto.

Non si guarda alla natura in modo troppo naïf, ma piuttosto come a uno schermo tra sé il resto dell’umanità; appunto, non un rifugio quanto un mezzo che permette di evitare il mondo. Granik non a caso sceglie un AR quasi televisivo, né troppo largo né troppo stretto perché ha bisogno di avere costantemente due personaggi sullo schermo e nutre un interesse marginale per il “mondo incontaminato”, fattore poco sfruttato nonostante una fotografia rigorosamente all natural. Questo è visto sempre come una risorsa da impiegare a (umano) piacere, mentre la dualità nella messa in scena è insistita per avere sempre presente il concetto dell’altro. L’altro è quello che il padre non sopporta, la relazione sociale con tempi e spazi propri, la convenzione come modello da applicare. Di fatto Ben Foster è un araldo della libertà assoluta, quello che non solo non vuole ma non può nemmeno avere vincoli, il cui passato militare gli disegna una paura negli occhi di una sincerità apparentemente disarmante – a ulteriore conferma di una regista che dà il meglio di sé nella direzione degli attori e stenta a trovare una cifra stilistica autoriale – e al quale si presenta la necessità di compiere un’altra terribile scelta quando la figlia si scopre non essere fatta realmente della stessa pasta. Incapace di adattarsi, la vita borghese (ma anche semplicemente civilizzata, quella trailer-trash) diventa il suo vero antagonista, e con esso dovrà confliggere onde evitare di perdere la figlia. Poi, come tutti i bravi padri la lascerà andare, preferendo al felicità per lei alla propria, ma la parte concettuale viene prima.

Non un ricchissima parte concettuale, a dire il vero. A suscitare un minimo di fascino sono appunto le parti di contorno, mentre il tronco principale del discorso, quello della libertà assoluta, è di una ingenuità spaventosa. La prima parte parte dell’opera coltiva quest’illusione di una vita-allo-stato-brado non in virtù di un presunta purezza, un fuggire da un mondo in decadenza, ma del rifiuto del mondo in quanto tale, nella migliore della sua forme possibili e non corrotto, ma non ci vuole troppo per scivolare verso un nucleo fatto di favole made in USA che vorrebbe intendere la libertà senza l’altro a prescindere, di formare un io senza il tu, senza perdere nulla. Qui sta forse il difetto di fondo più grande di tutto il film, voler cambiare radicalmente un certo modo di intendere la realtà senza voler rinunciare alle sicurezze della pulizia, del progresso, delle piccole abitudini borghesi, e via andare. In questo senso va assunta come patetica la scena in cui la figlia – un’interessante giovine, questa Thomasin McKenzie, comunque – accetta con nonchalance i complimenti dell’assistente sociale sul proprio livello di istruzione.

Una dimensione sì fatta di sporcizia e umane piccolezze che poi si tradisce nel momento in cui allude ai grandi spazi, pur senza farli vedere, ancora una volta in perfetta, troppo perfetta continuità con la tradizione madre. La situazione di crisi di un’America moderna alle prese con nuove illusioni di felicità da parte dell’uomo qualunque è un contorno interessante, ma è per l’appunto contorno, mentre tutto ciò che tenta di andare oltre il romanzo d’ispirazione (My abandonment di Peter Rock, che fa di questi soggetti l’oggetto di ogni sua narrazione) non impatta per niente. Intimamente contraddittorio senza volontà di esserlo, Senza lasciare traccia dirotta lo sguardo dello spettatore facendo intravedere un altro mondo sotto al superficie, che però è profondo appena due spanne che sembrano decine di metri solo perché il riflesso dell’acqua è ingannevole. Tutto si rivela fin troppo facile, nel momento in cui si vuole guardare veramente dentro lo spirito dell’opera, e non ci si accontenta di avere rimosso la scorza, come se la presenza stessa di un primo strato da scartare giustificasse il lato nascosto, indipendentemente dal suo valore intrinseco. Troppo facile.