Risulta difficile introdurre un film come L’uomo che uccise Don Chisciotte senza scivolare nella facile retorica, cui tra l’altro chi scrive finisce per ricorrere fin troppo spesso quando si tratta di certe opere. Riassumere tutte le traversie patite da Gilliam nel corso delle varie produzioni e dei tentativi infruttuosi di realizzare questo film sarebbe null’altro che una perdita di tempo che rischierebbe di diventare la solita via crucis che passa per le consuete tappe di Lost in La Mancha, Johnny Depp e, in ultimo, la recente beffa incarnata dalla figura di Paulo Branco, finendo per distrarci dall’esito finale. D’altro canto ignorare il parto che ha portato al The man who killed Don Quixote del presente sarebbe un torto di eguale misura, quindi tanto vale avvalerci dell’indicazione che ci dà lo stesso Gilliam al principio del film: “sono trascorsi venticinque anni…”.

Basta così, e subito siamo catapultati in Spagna, dove un regista di nome Toby cerca con improbabili scuse di prendersi l’ennesima pausa dalle riprese di una pubblicità a tema Don Chisciotte, pentitosi di aver riciclato l’idea del suo film di laurea per uno spot raccapricciante. L’aura pittoresca del paesino Los Suenos fa riemergere in lui sprazzi dell’idealismo di un tempo ma, trascinato dal calzolaio pazzo che interpreto l’eroe di Cervantes nella sua trasposizione naïf in b/n di dieci anni prima, finirà piuttosto per compiere il percorso di Don Chisciotte all’inverso, dovendosi scontrare ripetutamente con la meschinità e l’ipocrisia di un passato in cui in fondo s’è cullato e basta.

L’immagine di Don Chisciotte ritorna a farsi beffa del secondo regista interpretato da Adam Driver, assumendo di volta in volta forme diverse, duplicandosi all’infinito fino a risucchiarlo. Il primo Don Chisciotte è Gilliam stesso, semplicemente, e la scena degli ormai iconici mulini a vento – metafora del sistema produttivo hollywoodiano ma non solo –  ce lo ricorda ancora una volta, e da questo nasce una moltitudine di Don Chisciotte, tutti identici, le cui varie declinazioni assumono significati differenti a seconda del contesto. In qualche misura, pur facendo per certi versi qualche passo indietro il regista americano è capace di gettare lo sguardo oltre l’amore per l’immaginazione e la divinizzazione della pazzia. Il secondo Don Chisciotte è chiaramente il nostro Toby, anche se questi si pensa proprio l’opposto; e tale appare anche a noi nei primi minuti, così vizioso e cinico. Il suo viaggio nel passato, da cui pretendeva soltanto una dose di sana evasione, rivela invece un altro Sam Lowry – che su un’idealizzazione infantile della propria spensierata giovinezza aveva costruito la sua tuta alare per fantasticare dall’alto – mentre finge di non vedere come si è adattando sorprendentemente bene allo star system. Saranno le sue fantasie e tirarlo a terra a forza, vestendo i panni degli altri Don Chisciotte, quello interpretato da Jonathan Pryce (ironico no?) che passerà un’ora abbondante di pellicola a crederlo Sancho Panza e a deriderlo, rimproverarlo, picchiarlo, come vuole il copione del cavalier servente, e poi quello astratto del primo film in qualità di contesto spettrale, e ancora il Don Chisciotte davvero ideale, quello che Toby (e Gilliam) sogna veramente, quello davvero folle, sincero e puro ma che non può essere.

Il protagonista è quindi costretto a rivivere le tappe fondamentali della vicenda di Don Chisciotte dal punto di vista più doloroso, quello perfettamente lucido e consapevole dello scudiero, penalizzato anche dal fatto di patire l’inadeguatezza che tale costrizione comporta, nonché dall’impotenza sperimentata dinanzi alle conseguenze delle proprie azioni, prima fra tutte un’Angelica la cui innocenza egli ha finito per divorarsi. Ma tutto il paesino sembra essere stato dannato dalla venuta di Toby dieci anni prima, perdutosi in una specie di bolla fuori dal tempo che ospita comunità simil-medievali, tenute in riga da un corpo di gendarmeria che sembra uscito proprio dalle pagine di Cervantes e da una parodia dell’ISIS, per non parlare del padre di Angelica la cui insana rabbia lo porta ormai a sfidare gli accorrenti a duello, vestito da cavaliere nero, in una logica perversa che gronda disperazione similmente a pugni insanguinati di Fight Club. Le apparenti stranezze e forzature di Los Suenos però non sono altro che un preludio a una mastodontica collisione tra il mondo fantastico e quello reale che ricorda al nostro protagonista che disincantato non lo è stato mai, rifuggendo con un intricatissimo sistema di bugie per se stesso non solo ogni battaglia, ma anche le più piccole difficoltà.

Il suo cammino continua infatti a procedere a ritroso, cioè sono i mulini a diventare giganti, è la fantasia a farsi realtà, la follia così cara a Gilliam non si fa esperienza di fede, piuttosto viene creata una religione folle in cui rifugiarsi un’ulteriore volta. Nell’ultima parte dell’opera, quando ormai i livelli di realtà iniziano a mischiarsi, e i committenti russi a capo di tutto diventano parte della finzione, caricandosi il ruolo dei villains, viene fuori tutto l’autobiografismo precedentemente soppresso nella prima ora e mezza: ovverosia, il surrealismo più grottesco e immaginifico finisce per assumere i connotati nella realtà, nell’ultimo ribaltamento della vicenda. Il finale di L’uomo che uccise Don Chisciotte è uno dei più tristi dei tutta la carriera di Gilliam poiché riprende il titolo in maniera perfetta, la morte gilliamesca coincide con la fine della fantasia, quando l’esistente è talmente forte nel giustificare se stesso da non lasciare trasparire alternative, quando nemmeno delirando (Sam, Parry, adesso Javier, poi Toby) è possibile pensare liberamente. E con il suddetto finale si ritorna all’inizio, al primo Don Chisciotte, a quel Terry Gilliam che combacia con l’uomo che lo uccide, nell’inevitabile contraddizione che permea chi vuole fare cinema (o arte in generale) a cavallo tra lotte infruttuose e una pesantissima consapevolezza. A fare da tramite, lo zingaro-ex-machina e dalle infinite forme interpretato da Oscar Jaenada, il personaggio che meglio incarna la poetica di Gilliam in questo film, ribadendo, in una delle piccole provocazioni sull’attualità all’interno del film, il tema del caos sotto forma del marginalizzato che in un modo o nell’altra arriverà sempre scombussolare ogni cosa.

Agrodolce nel senso più etimologico del termine, The man who killed Don Quixote vive quindi delle sue contraddizioni, del suo voler essere debordante come ci si aspetterebbe da un delirio autentico, un tentativo sincero di approdare a quello dimensione menzionata prima, quella di una vera e propria sacra follia, e del suo mischiare accelerazioni brusche a cambi di ritmo apparentemente ingiustificati, deformazioni dello spazio filmico con esiti slapstick e attimi di crudo e sporco realismo, dirottando la narrazione per accartocciarla su stessa al fine di generare il più alto numero di paradossi possibili. In questa continua ricerca dell’instabilità a tutti i costi non è affatto facile mantenere l’equilibrio generando piccole pause confusionarie che non possono far altro che macchiettare la visione del film, unendosi malamente a un’intuizione registica – quella di una steadycam veramente ondeggiante, mai doma, che nemmeno Paura e delirio a Las Vegas – sfruttata in maniera discontinua. Purtroppo non si può compensare fino a questo punto pur con il concetto iniziale della continua mutabilità – questi sono i passi indietro di cui sopra.

Il risultato finale è quello di un’opera di grande valore, il cui giudizio non può essere scisso però dalla complicata gestazione che l’ha accompagnato (e irrimediabilmente modificato) nel corso dei decenni, dal valore particolare che questo processo ha germogliato nel film (a metà fra la catarsi e la tenerezza suscitata dalla commozione) e dal peso simbolico di cui è stato caricato dal susseguirsi di quegli eventi che abbiamo evitato ed evitiamo di snocciolare. L’uomo che uccise Don Chisciotte prende molto da Amarcord e da Fellini, ma si rifà in minor parte a Stardust memories e rubacchia qualcosina anche a Tokyo tribe – in particolare per quanto concerne la splendida fotografia, sempre a opera di un Pecorini che firma l’ennesima grande prova pur avendo passato molto probabilmente la maggior parte del tempo delle riprese a ubriacare la mdp – ma, dicevamo, Amarcord è la sua ispirazione principale, anche se viene spontaneo pensare che l’obiettivo iniziale fosse quello di firmare un personale . Giunto a questo punto della carriera Gilliam forse più di così non poteva fare da questo punto di vista , anche perché nel seguire di delirio di Pryce non si può fare a meno di realizzare che quel Don Chisciotte maledetto forse era già stato portato sullo schermo per metà da Parry ne La leggenda del Re Pescatore e per metà da Qohen Leth di The Zero Theorem, rispettivamente Don Chisciotte e il suo assassino. Un’immagine di una certa potenza per chiudere il 71esimo Festival di Cannes, tutto sommato.