RAMS è davvero la “Storia di due fratelli e otto pecore”, come recita il suo sottotitolo. Solo che, invece della commedia caciarosa a cui questa definizione potrebbe far pensare, il film è una delicatissima storia d’amore, semplice e quindi, come sempre l’amore, molto complicata.
C’è l’amore di Gummi (Sigurður Sigurjónsson) e Kiddi (Theodór Júlíusson) per le loro pecore, intanto. Potrebbe essere facile sminuire la faccenda, ma quando vivi in Islanda, circondato solo di vento e di erba, e hai interrotto tutti i tuoi rapporti con tuo fratello col quale non parli da quarant’anni, verso quelle creature che ti danno da vivere e che costituiscono in buona sostanza le tue migliori compagne… beh, sì, provi amore. La tua sfera affettiva diventano gli animali, a loro va la tua gratitudine, il tuo senso di appartenenza, i tuoi pensieri, la tua attenzione, la tua emotività. A loro vanno tutti i tuoi sforzi, loro costituiscono il senso della tua vita. Ci sono scene, nel film, che commuovono per la vividezza e la purezza di questo amore.
Poi c’è l’amore dei due fratelli, l’uno per l’altro. Che si rivelerà solo alla fine: per quasi tutta la loro vita si odiano, tra di loro esistono solo messaggi scritti consegnati da un cane e qualche pallottola per tenersi a distanza. Però, a mano a mano che la storia procede, iniziano a formarsi crepe in questo odio: si intravede un silenzioso osservarsi, fosse anche solo per assicurarsi che l’altro sia vivo (esemplare la scena in cui Gummi raccoglie con la pala escavatrice il fratello ubriaco e lo scarica davanti alla porta del pronto soccorso: il tutto, in rigoroso silenzio). Come andrà a finire, nemmeno il regista Grímur Hákonarson ce lo dice, ma una cosa è certa: quelle crepe si allargano fino a far scoppiare quarant’anni di amore fraterno represso.
Poi c’è l’amore verso un luogo, una terra. E questo ce lo racconta il film stesso, con la sua fotografia, con l’ampiezza dei suoi luoghi, con le lunghe immagini sui panorami, e perché no: anche con la sua sceneggiatura. Sì, perché la trama, a farla semplice, è la storia di uno sterminio di pecore per prevenire una malattia che contagerebbe tutta l’isola. Ma questo sterminio significa non solo la cancellazione di una razza specialissima, ma anche l’abbandono dell’isola da parte degli allevatori disoccupati: cioè, significa iniziare a cambiare volto a quella valle, in Islanda. E questo film grida raffinatamente: no.
Le otto pecore del sottotitolo sono le supersiti che Gummi decide clandestinamente di salvare. Sarà questo che lo farà riavvicinare al fratello: la condivisione di un segreto, per entrambi così importante da sorpassare decenni di distacco gelido. E sarà proprio il gelo il grande protagonista di un finale aperto – peccato – ma poeticissimo. Un gelo che mette alla prova: una Madre Terra imperiosa che, specialmente in luoghi come l’Islanda, entra in tutte le faccende, private e pubbliche, scansa le piccolezze umane per mettere i suoi abitanti faccia a faccia con le cose veramente essenziali della vita.
Questa scena finale, che non può essere raccontata, è pura commozione, e vale il film intero: non che ce ne fosse bisogno, che un’ora e mezza di cinema così intimo e sincero è raro a trovarsi. Meritatissimo il premio “Un Certain Regard” a Cannes nel 2015.
Titolo originale Hrútar
Paese Islanda
Anno 2015
Durata 93 min
Genere drammatico
Regia Grímur Hákonarson