“Gran Torino” di Clint Eastwood

Grugniti di saggezza

Clint Eastwood è un grande attore, è un grande regista (uno dei migliori in attività), una grande icona, ma soprattutto Clint Eastwood è lo spirito e il simbolo di una nazione, che ne indaga i valori, ne scandagli i limiti, ne identifica il passare del tempo. Ieri come Ispettore Callaghan, oggi nei suoi personaggi anziani.

Come il Walt Kowalski di questo suo nuovo film, girato e distribuito a pochi mesi di distanza dal precedente e ottimo Changeling, con cui il vecchio duro dagli occhi di ghiaccio torna a recitare dopo qualche anno, regalandoci una nuova, intensa prova di lucidità filmica, profondità morale, sapienza cinematografica.
Il suo Walt è un vecchietto che ha da poco seppellito la moglie e allontanato la sua mediocre famiglia, preferendo vivere in solitudine, anche perché i suoi vicini di casa sono più o meno tutti immigrati orientali o debosciati di colore: ma il suo odio verso le minoranze diventerà qualcos’altro, grazie alla conoscenza con la famiglia di Thao, il ragazzino che ha tentato di rubargli la sua Gran Torino. Una sorta di commedia drammatica, dalle sfumature noir e melanconiche, che la sceneggiatura di Nick Schenk e Dave Johannson fa diventare un racconto di formazione a molti strati, una sorta di A spasso con Daisy maschio e vitale in cui raccontare l’evoluzione di un mito e del suo contesto.

Evidentemente, Walt è Dirty Harry ormai in pensione, che sta aspettando che la sua vita trascorra, cercando di restare il più sereno possibile, ma continuando a coltivare quella voglia di giustizia a tutti i costi che lo ha seguito nel suo cammino, ma anche una riflessione sulla vecchiaia, sul declino di un baluardo di una certa America che si accorge che il mondo sta cambiando e il razzismo da reduci non ha più senso in un mondo in cui i buoni e i cattivi non esistono, se non nelle fantasie di chi ci governa, in cui le differenze razziali sono poco più che barzellette e stereotipi (bellissima la scena dell’educazione virile dal barbiere).

Come in Million Dollar Baby – di cui è una sorta di prosecuzione concettuale – Eastwood pone il suo cinema problematico dietro l’apparenza limpida e classico e parla del rapporto tra vecchi e giovani, della condizione sociale e politica del proprio popolo non usando il genere, come ha sempre fatto, ma con una libertà di tono e respiro narrativo che spazia tra i registri e nei sentimenti dello spettatore, usando l’humour, l’amicizia virile e un modo di fare cinema che ormai è unico e probabilmente universale, oltre che immortale, nell’uso di un linguaggio comunicativo assoluto.

Che è fatto di dialoghi essenziali e minimali, di personaggi semplici che crescono emancipandosi dalle mere funzioni narrative che costituiscono per diventare esempio dell’umanesimo della miglior arte americana, ma anche di una regia decisa, solida, secca, che sa costruire l’emotività necessaria al climax finale – tanto all’apparenza facile, quanto profondamente complicato – passando da minimi scarti d‘impostazione, da un uso esemplare del montaggio (di Joel Cox) e della geometria delle inquadrature (fotografia di Tom Stern). Tutta l’essenzialità del processo filmico di Eastwood si rispecchia nella sua prova interpretativa gigantesca e incisiva, fatta di sguardi di traverso, ringhi, ma anche di sorrisi che aprono il cuore. Come il suo cinema, che di anno in anno diviene più denso, intimo, profondamente americano.