Il punto di vista ha 9 anni, si chiama Oskar ed è newyorkese. L’11 settembre Oskar torna a casa senza sospetti e vive la tragedia: 5 messaggi del padre in segreteria telefonica dalle 8.52 alle 10.04 e poi, alle 10.26 e 47 secondi, quell’ultima telefonata. Un segreto, un dolore e un senso di colpa che Oskar porta ogni giorno con sé e che nasconde per proteggere da quegli ultimi terribili minuti del padre la madre e la nonna.
Un romanzo assolutamente originale, onirico e grottesco, che offre al lettore una curiosa commistione di generi e stili: pagine fitte di racconti e pensieri di un bambino con le “scarpe sempre più pesanti”, ricordi dolorosi del nonno sopravvissuto ai bombardamenti su Dresda, foto bizzarre di oggetti, luoghi, volti e animali, prove colore di pennarelli al bancone di un negozio, pagine sovrascritte, brani corretti con il rosso e parole stampate nel vuoto di pagine bianche, quasi a precipitare nel vuoto della fine, nel vuoto di un ultimo tragico volo dalle torri gemelle.
Dolore, rabbia e solitudine sono sentimenti profondi e sempre presenti, ma quasi mai manifestati direttamente e in modo esplicito. Il racconto si snoda per tutta New York in una caccia al tesoro, gremita di incontri originali, alla ricerca della serratura che combacia con una misteriosa chiave appartenuta al papà. La narrazione a volte riesce a riflettere in modo efficace la mente di un bambino ferito, a volte diventa invece macchinosa e complessa, costringendo il lettore a rileggere e rielaborare il tutto.
È l’eccesso forse il difetto di questo romanzo che in una sola opera vuole stipare talmente tanti spunti di riflessione e pirotecniche trovate stilistiche da lasciare in fondo una sensazione di superficialità. Il lettore non ha abbastanza tempo tra una acrobazia e l’altra di sedimentare pensieri e sentimenti e si ritrova alla fine con un senso di stupore incompiuto.
D’altro canto è proprio la fantasia, connotazione principale del romanzo, che salva Oskar dalla disperazione, quella sua irrefrenabile vena inventiva che gli permette di sopravvivere in mondi magici e di escogitare trovate salvifiche che spostano il dolore dal cuore alla testa. Una per tutte il progetto di tubazioni collegate con i cuscini dei letti di New York per raccogliere le lacrime di chi piange prima di dormire e convogliarle nel laghetto di Central Park, facendolo diventare una specie di termometro della sofferenza della città. A sorpresa anche il finale che riesce ad essere rasserenante, letteralmente rovesciando le immagini e trasformando la tragedia in speranza.
Intrecci di storie e personaggi, stile, grafica, immagini, tutto è volto alla ricerca di un’espressione elaborata, creativa e sorprendente che riesce a commuovere profondamente. Da sempre la letteratura sente la fascinazione e il desiderio di avvicinare altre arti o di usare la pagina e i segni per esprimere in un modo nuovo suggestioni e stati d’animo: da Buzzati a Baricco a questa nuova generazione di scrittori americani assetata di nuove cifre stilistiche, i romanzi escono prepotentemente dai confini tradizionali e i risultati sono spesso estremamente interessanti.
Jonathan Safran Foer, giovane talento americano, vive a New York, ma è nato a Washington nel 1977; ha già ricevuto numerosi premi per la narrativa e la scrittura creativa ed è uno dei curatori del Futuro dizionario d’America, pubblicato nel 2005. Questo è il suo secondo romanzo dopo l’esordio con Ogni cosa è illuminata, sempre edito in Italia da Guanda nel 2002 e da cui è stato tratto l’omonimo film di Liev Schreiber, presentato nel 2005 alla Mostra del Cinema di Venezia.
Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, Guanda, 2005, pp.384, € 16,50.