“L’Italia spensierata” di Francesco Piccolo

Pensieri sull’Italia spensierata

Il punto di vista di uno scrittore, che per l’occasione si fa antropologo e argomenta su vari aspetti del divertimento di massa in Italia: è prima tra il pubblico di Domenica In, poi sosta in autogrill nell’esodo vacanziero, fa la coda per le montagne russe, va al cinema a vedere un film di Natale, impazzisce nella Notte Bianca romana; tutto vissuto in prima persona per una ricerca sul campo, giù in trincea come si conviene, nel trashume più disparato che lo stivale possa generosamente offrirci.

Francesco Piccolo è un affermato scrittore di libri, articoli e sceneggiature. Scrittore, tra le tante altre (c’è la sua firma nella scrittura dei mitici e indimenticati Paz! e My name is Tanino, per esempio), della sceneggiatura de Il Caimano di Nanni Moretti. Ecco: la cosa intrigante di questo libro – intendendo a priori dalla lettura stessa – è la notizia che un intellettuale scende dalla famosa torre d’avorio per fare le stesse cose dell’italiano medio, quello che accetta – anzi, apprezza – ogni cosa purchè disimpegnativa (eufemismo). Niente di nuovo, comunque, ma qui l’approccio è probabilmente quello preferibile: un’osservazione partecipante dell’Italia spensierata da parte di un pensatore per professione, al dì là della spocchia e dell’infido patetismo. Francesco Piccolo si schiera con la massa, “per vocazione”, sostiene lui; ma oltre al politically correct d’ordinanza, appare onesto il sentimento d’affetto tragicomico e di fratellanza nelle sventure nei confronti delle persone che osserva dalla stessa loro prospettiva – e quindi anche verso sé stesso: anche se non è forse lui consapevole del totale disinteresse degli autori di Domenica In verso quello che scrivono, costretti solo dal bisogno di lavorare? Con le sue parole: “preferisco stare dalla parte degli stupidi e degli ignoranti piuttosto che da quella di un certo tipo di persone intelligenti che ama farsi un sacco di risate alle spalle degli stupidi e degli ignoranti”, e questo detto soprattutto in riferimento a certi programmi aggettivati “intelligenti”, che altro non fanno se non svelare impietosamente – ed enfatizzare, automaticamente, per una questione di ruoli – gli errori che fanno tutti. Però non gli è sempre così facile resistere: per uno sceneggiatore è difficile simpatizzare con la sceneggiatura di Natale a Miami, è la prova più dura, dalla quale ne esce abbastanza triste e allucinato, dopo aver stoicamente mantenuto un’autoimposizione a vederselo tutto, il cine-panettone. E cosa succede quando la cultura è vissuta da tutti, in una Roma intasata da spettacoli culturali d’ogni tipo nella famigerata Notte Bianca? Vien voglia di un sindaco tutt’altro che illuminato, e di mantenere stretta la cerchia culturale; idea discutibile all’infinito… ma questo è un libro abilmente costruito su un’ironia leggera, mai sopra le righe, che non sfocia nell’apologia retorica verso questo o quell’altro. Come già scritto, è questo il suo punto di forza, perché non se ne può più della banalità delle critiche efferate contro la televisione trash o dello snobismo a tutti i costi: sono cose che si sanno già; e l’autore lo alza, per una volta, il livello del discorso, e cerca piuttosto di capire meglio i significati di queste cose.

Il suo lavoro può essere paragonato a quello di un antropologo, che vince i pregiudizi della propria cultura vivendo in prima persona un’esperienza-altra, per poi attribuire significati coerenti ai comportamenti studiati – è significativo che alla multisala, il giorno dopo Natale, a vedere il cine-panettone non incontrerà nessuno dei suoi amici, quando invece per una serata al cinema è solito accadergli il contrario. Però non si tratta di cieco sdoganamento: “è il momento in cui ci si chiede se ci si sente almeno un po’ stupidi. E la risposta non è: no. La risposta è: sì. Ma questo sì è comprensivo e caloroso, suggerisce un diritto ad essere un po’ stupidi qualche volta nella vita. E a lasciarsi andare”; trovare un equilibrio: a riuscirci, non sarebbe affatto male. In quasi 200 pagine, una brillante prova di understatement tendente all’(auto)ironia.