Aïcha è il film del regista tunisino Mehdi Barsaoui presentato nella categoria Orizzonti all’81. Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia.

Aya lavora fin da quando era solo una bambina per poter sostenere la propria famiglia. Essendo stata ritirata giovanissima da scuola non vede davanti a sé altro futuro se non continuare a lavorare nel turismo o, come i genitori premono, convolare a nozze, anche se si tratta di un marito che non ama. Una via di fuga le si palesa davanti solo quando il minivan che quotidianamente prende per recarsi a lavoro rimane coinvolto in un incidente e lei, come un Mattia Pascal, scappa alla volta di Tunisi alla ricerca di una vita nuova, lontana dal paesino rurale in cui è nata e cresciuta. Nella capitale la ragazza conduce una vita all’insegna delle mondanità, almeno fino a quando non viene coinvolta in un eclatante caso di corruzione e di violenza della polizia.

Aya è il vero e proprio specchio della condizione femminile prima al di fuori dei grandi centri urbani, dove ancora la donna occupa una posizione di subordinazione rispetto all’altro sesso, e poi in una grande città quale Tunisi, in cui si presupporrebbe un ammodernamento del pensiero che, in realtà, non è presente e altro non fa che assumere una diversa faccia. Se in campagna sarebbe stata obbligata a sposarsi pur di assicurare un sostentamento non solo per lei, ma anche per i propri genitori, in città, invece, è costretta a dichiarare il falso nella paura di poter essere incriminata per la sola colpa di aver frequentato una discoteca e successivamente a vedersi violata la propria integrità fisica. Interessante è collocare tutto ciò in un Paese in cui, quantomeno a livello teorico, si mantengono separati Costituzione e shari’a.

L’altro grande macrotema è, appunto, la corruzione e la violenza che permea la polizia e, più in generale, le forze dell’ordine tunisine. È il cameratismo che spinge le più alte sfere dirigenti ad insabbiare le azioni dei propri sottoposti, rimproverando come errore non la commissione di un efferato delitto, bensì il non aver avuto l’acume di coprirsi il viso per poter passare ancora più facilmente impuniti.

La pellicola è un amaro rimprovero e una sagace denuncia allo stesso Paese di origine del regista, che vede come unica possibilità di emancipazione la morte.