Avete mai visto dall’interno una delle unità di soldati russi che ha invaso l’Ucraina nel 2022? Come ve le immaginate, come schiere di eroi “senza macchia e senza paura” che si oppongono alle minacce espansionistiche della NATO e dell’“Occidente collettivo”, come patrioti che difendono la santissima russia e le cosiddette “minoranze russofone” del Donbass, o forse come mercenari e stupratori? Una documentarista russa segue da vicino per diversi mesi alcuni dei soldati invasori e ci racconta alcune cose. Sta poi a noi se crederle o meno.

Prima di descrivere ed analizzare questo film siamo costretti a fare alcuni necessari disclaimer, per correttezza d’impostazione professionale: alcuni amici e colleghi russi di opposizione antiputiniana ci avevano messo sull’attenti (prima della visione) o hanno commentato in maniera molto negativa questo film (dopo la visione), in quanto ritengono una scelta sbagliata l’averlo messo nel programma ufficiale di un evento così importante come la Mostra di Venezia o, addirittura, poiché leggono il film almeno parzialmente come un’opera di “propaganda ibrida”, concetto sul quale torneremo. Ciò non ci ha portati ad essere prevenuti, ma ci ha sicuramente spinto ad una analisi più approfondita del contesto.

Il contesto, appunto: la regista Anastasija Trofimova è una autrice di reportage e documentari che si è dedicata a temi sensibili e complessi come l’ISIS, i diritti delle donne in zone di guerra e le ingiustizie sociali, è nata a Mosca, anche se si dichiara “russo-canadese”. Ha effettivamente vissuto e operato per buona parte della sua carriera fuori dal proprio paese, ivi compresa l’Olanda dove ha preso un Master, ma non riusciamo a capire bene perché ella senta il bisogno di aggiungere e sottolineare un ulteriore aggettivo di denominazione geografica, elemento che in alcuni casi negli ultimi anni ci è sembrato funzionare come procedimento di distanziamento o “ammorbidimento” nel processo di autodefinizione nazionale, quasi a voler mettere le mani avanti contro eventuali rischi di “cancel culture”… La Trofimova è russa, e ciò di per sé non è affatto un problema, figuriamoci, tanto più per chi scrive, che insegna con gioia letteratura russa ed ha fra i suoi amici più cari colleghi e professionisti nati in quel paese. I problemi, semmai, sono altri. Alcuni dei mediometraggi o doc tematici che ha prodotto in passato sono stati sovvenzionati da Russia Today (più nello specifico da una sua branca, RT Documentary), emittente propagandistica sostenuta dal governo russo, ora bandita in gran parte d’Europa, ma che per anni con i suoi canali informativi ha operato come agente di influenza cremliniana anche in Italia, con montagne di fake news, intensa dezinformacija e aperto sostegno alle politiche putiniane. Dunque, la pur brava documentarista ha un innegabile passato di collaborazione con un ente propagandistico russo, e non credo che questo elemento si possa del tutto sottovalutare. 

Un’ultima osservazione introduttiva da inserire nei presupposti per lo meno dubbi relativi a questo film: la Trofimova ha dichiarato, e nel film si parte proprio da questo episodio, di essere entrata “casualmente” in contatto con un cittadino ucraino originario della zona di Donec’k che ha deciso di combattere dalla parte della russia, e di averlo poi seguito al fronte senza chiedere o avere mai un permesso ufficiale dagli organi preposti. Incontro casuale e tranquilla permanenza semi-clandestina in zone di guerra che, sinceramente, ci lasciano un po’ perplessi e dubbiosi…

Ciò detto, vediamo di “far parlare il film stesso”. L’inizio sembra ricordare una surreale favola di Natale al contrario: un tizio allampanato seduto nel vagone di un trenino (una elektrichka) indossa un vestito da Babbo Natale (più precisamente Nonno Gelo, come lo chiamano i russi), e la tenera e cortese Anastasija scopre che Il’ja è appunto un ucraino che sta per tornare in zona di guerra, uno degli abitanti del Donbass che sostiene i separatisti delle autoproclamate repubbliche “popolari”, e che si è poi unito ai soldati russi ufficialmente (non più dunque presenti sotto mentite spoglie o privi di segni di riconoscimento) mandati ad invadere l’Ucraina. 

Qualche tempo dopo l’avventurosa regista (che, ad onore del vero, ricordiamolo, è già stata diverse volte in teatri bellici, come Iraq o Siria, dunque è abituata al pericolo) si accorda con il babbo natale militare per accompagnarlo a svolgere la sua parte di “operazione speciale” ben poco festiva, e, non è ben chiaro come, riesce “senza permessi ufficiali” a raggiungere una delle unità dell’esercito russo e a passare in compagnia di questi gentili signori ben sette mesi, giungendo perfino alle soglie del fronte di Bachmut, una delle tante città ucraine rase al suolo dagli invasori putiniani.

E già qui la sospensione di incredulità va un po’ a farsi benedire: è altamente improbabile che un corrispondente di guerra, che egli sia ufficialmente “embedded” o meno, possa intrufolarsi come se niente fosse in un reparto dell’esercito senza autorizzazioni, e passarci non una settimana, non due, ma diversi mesi. In una sua intervista la Trofimova ha dichiarato con una lunga e dettagliata spiegazione di aver tranquillizzato e convinto i comandanti del battaglione con mezze bugie, fingendo di voler continuare la gloriosa tradizione dei reporter sovietici della Grande Guerra Patriottica (così, in russia, ancora oggi viene chiamata la Seconda guerra mondiale). In uno dei momenti che ci hanno messo maggiormente sull’attenti la regista si rivolge direttamente alla camera e in primo piano (rinchiusa “di nascosto” in uno dei mezzi blindati) dichiara il suo timore che il comandante dell’unità possa scoprirla e mettere fine al suo reportage, soprattutto nel momento in cui dalle retrovie i militari si stanno spostando verso zone di sanguinoso combattimento. Ci è sembrato di assistere ad un déjà-vu di “The Blair Witch Project”, in cui gli occhioni della dolce reporter, sprizzando timori più o meno credibili, cercava di trasmettere sensazioni di incertezza, timore e inganno di fronte ad una situazione piuttosto improbabile. Non convincendoci, però, più di tanto.

In russia in generale, e figuriamoci di questi tempi, è abbastanza difficile che una giovane donna, per di più giovane e piacente, possa avventurarsi in situazioni così pericolose senza garanzie o autorizzazioni ufficiali, o per lo meno senza assicurazioni di incolumità o esplicita protezione da parte del “boss” che comanda le operazioni in una data zona. Ad ogni modo, cosa ha deciso di mostrarci la nostra dolce Nastja dei sette mesi passati coi soldati? Qui la decifrazione del contesto si fa ancora più delicata e complessa. Vengono seguiti in particolare una dozzina di commilitoni di varia età ed esperienza, ai quali la regista pone domande abbastanza schiette, così come schiette sono buona parte delle loro risposte. “Perché sei venuto a combattere?”, “Avete invaso o no un paese indipendente?”, “Pensate che l’esercito russo si possa davvero macchiare di quei crimini di guerra contro i civili dei quali lo accusano?”. Qui il quadro interpretativo si complica, perché in nome di una verità lontana dagli stereotipi, che la regista dichiara di voler seguire, effettivamente l’immagine dei soldati che esce fuori da queste conversazioni non è molto raccomandabile. Quasi nessuno è lì per patriottismo, le loro idee politiche sono quanto meno confuse e il coinvolgimento ideologico scarseggia; per lo più sono lì per i soldi, per “campare la famiglia”, o per sfuggire a qualche marachella, diciamo così, compiuta in patria. C’è il tossicodipendente in fuga dai suoi demoni, il ragazzino un po’ sprovveduto che difficilmente avrebbe fatto una brillante carriera all’università, il signore attempato che non nega di poter sperperare in “alcool e puttane” il salario così gloriosamente meritato; molti, soprattutto, confermano che ciò di cui blatera la roboante propaganda televisiva di mosca è una bugia improponibile, e che lungi dal mietere successi su successi, in quel pantano sanguinolento i soldati russi crepano a bizzeffe, male armati e peggio equipaggiati (un po’ quello che alcuni signori della guerra russi, come il non compianto Prigozhin o Igor’ Girkin, hanno sempre affermato). Il doc sembrerebbe, dunque, poter addirittura trasformarsi lentamente in una sorta di accusa al regime e alle sue bugie, ma si presentano diversi “però”. Se è vero che le fandonie della tv di mosca riguardanti i successi militari vengono smentite e sbugiardate in primo piano, altri argomenti sono invece trattati con più finezza e “protetti” dal beneficio del dubbio. Soprattutto, non risuona mai una chiara condanna dell’invasione che ha portato questi “bravi ragazzi” a morire a migliaia, e, peggio ancora, non si avverte o ascolta la minima empatia per le vittime civili ucraine, che in linea di massima è uno degli elementi più forti e decisi nelle dichiarazioni personali o artistiche di figure pubbliche russe che negli ultimi due anni e mezzo hanno voluto davvero guardare la guerra da vicino e “fuori dagli stereotipi” (la reporter di Novaja Gazeta Elena Kostjuchenko, i membri russi di Memorial, scrittori come Michail Shishkin). Qui è come se gli ucraini non giocassero alcun ruolo, come se non ci fossero, sono una sorta di convitato di pietra nel proprio stesso paese, un popolo-fantasma invisibile che sparisce in una narrazione dove l’unica cosa importante è “umanizzare” i soldati russi. 

Manca poi, o viene un po’ camuffata, larga parte del contesto storico prossimo e a medio-lungo termine, presupposto fondamentale per un lavoro di documentazione serio e professionale; non solo la Trofimova “dimentica” le guerre in cui la federazione russa è stata coinvolta o ha direttamente scatenato negli ultimi trent’anni (Transnistria, Cecenia, Georgia, Siria…), dichiarando che da decenni in russia le guerre si erano solo lette nei libri di storia, ma ella non fa il minimo accenno ad eventi scatenanti fondamentali come l’invasione della Crimea del 2014, lascia parlare il suo “babbo natale” separatista a briglia sciolta di “guerra civile” in Donbass, di crimini inenarrabili dell’esercito ucraino, senza opporre un dubbio, apporre una didascalia, fornire un commento, come invece (va giustamente ricordato) altri documentaristi russi di opposizione o per lo meno fortemente critici contro il proprio paese, fanno regolarmente (ricordiamo, uno fra tanti, Askol’d Kurov, fra l’altro sostenitore della prima ora ed amico personale del regista ucraino Oleh Sencov). Inoltre, dopo aver ripreso i soldati nelle loro attività quotidiane e con una innegabile simpatia di sguardo, l’autrice si sofferma in modo poco convincente su alcuni dei punti più delicati, come i crimini di guerra compiuti a migliaia dall’esercito invasore e confermati da Amnesty International, Memorial e da altre associazioni umanitarie. A domanda secca se lui o altri commilitoni abbiano commesso violenze, stupri o ruberie ai danni dei civili ucraini, il giovane soldato intervistato risponde che ciò non lo ritiene possibile, che l’onore dei soldati russi non lo permetterebbe mai. E basta. Punto. Non un commento, non un’obiezione, non un’insinuazione di risposta. Il fatto che questo punto specifico sia mediato attraverso la figura del più giovane dei soldati, un simpatico ragazzino imberbe dal nome di battaglia “Mul’tik” (“Cartone animato”) probabilmente dispone maggiormente uno spettatore medio e non edotto verso una potenziale concessione di fiducia. Dunque, e gli esempi sarebbero tanti, dopo aver approntato un background di empatia e normalizzazione antropologica (l’avvicinamento ai personaggi, la loro quotidianità, perfino la loro passione per i gatti e, ca va sans dire, la loro continua preoccupazione per i figli), dopo aver preparato e scelto la figura meno minacciosa e più adeguata, la Trofimova insinua quasi, indirettamente, grazie alle risposte del buon “Cartone animato” che in fondo Bucha, le fosse comuni, i missili buttati sul Teatro Drammatico di Mariupol’ non sono una verità provata al cento per cento. Forse sono anche quelli degli “stereotipi russofobi”.

Ma non è finita qui: dopo la pars destruens, intesa a smontare l’immagine “stereotipata” dei soldati russi cattivoni e stupratori (in fondo sono al massimo dei semplici delinquentelli che confessano di andare a puttane, di alzare il gomito e di essere dei mercenari…), a sostegno di questa narrazione pilotata arrivano i piatti forti (i “colpi bassi”?) dell’empatia e della compassione. Dopo qualche tranquilla settimana negli acquartieramenti, i nostri “cartoni animati” sono chiamati in direzione di Bachmut ad andare ad uccidere quelli che ostentatamente chiamano “fratelli” ucraini. E lì, che ci piaccia o no, ancora una volta la realtà contraddice la propaganda, un po’ come nei meravigliosi “Racconti di Sebastopoli” di Lev Tolstoj: invece di essere accolti come liberatori, i missionari del russkij mir di putin sono falciati in quantità industriale, e solo un terzo dell’unità torna a casa, invece di coprirsi di gloria annegano nel sangue. Parte dei sopravvissuti rimarranno invalidi, fisicamente o psicologicamente, per il resto della vita, e a quel punto, chiudendo il cerchio, la Trofimova ci riporta in russia, dove vediamo i familiari dei soldati invasori piangere le proprie vittime. Sia ben chiaro, fino a prova contraria chi scrive è un essere umano capace di compassione, e il fatto che una persona muoia fra atroci sofferenze, o che una anziana madre debba piangere il figlio tornato a casa in un sacco nero di plastica non ci fa assolutamente piacere. La compassione è sentimento altissimo, gli insegnamenti cristiani suggeriscono di perdonare e amare il proprio nemico (non, però, di aiutarlo a farci del male), e diremo di più, se un ragazzino russo di diciotto anni, privo di conoscenze altolocate e mezzi economici adeguati che gli permettano di evitare la chiamata alle armi viene mandato nel tritacarne ucraino a morire senza arte né parte e senza la minima comprensione di quanto accade, ma perché realmente “vittima del regime”, siamo pronti a piangerlo con la madre. Il problema è che il pianto risuona fortissimo soprattutto dall’altra parte, dove migliaia di ragazzi ucraini che la guerra non l’hanno voluta e avrebbero voluto continuare a vivere le proprie vite personali e professionali si sono visti distruggere la vita proprio da quei simpatici commilitoni che la Trofimova vuole “ri-umanizzare”. Per carità, sono umani, anche troppo umani, e nessuno lo nega. Ma l’essere umano è capace di mostruosità inenarrabili che non lo esimono da condanne ferme e da punizioni esemplari. La nostra innocente Nastja con i suoi occhioni dolci dimentica che anche fra le vittime ucraine ci sono esseri umani, “disumanizzati” da stupri collettivi, da rapimenti di massa di bambini e da accanite distruzioni volontarie di palazzine multipiano compiute nel mezzo della notte. Palazzine piene di esseri umani, che la Trofimova sembra un po’ dimenticare. 

Questa “operazione simpatia” ha, per essere sinceri, anche dei pregi formali, che non possiamo negare: la narrazione è compatta e ben strutturata, la sceneggiatura, il montaggio delle varie parti, la sequenza degli episodi sono serrate e non hanno cadute di tensione, la scelta dei protagonisti è oculata, anzi non sembrerebbe affatto casuale: ci scorrono davanti figure dostoevskiane di sfigati, piccoli uomini e relitti in cerca di compagnia e di soluzioni alle beghe quotidiane. Ma rimane fortissima, purtroppo, la sensazione di quello che manca: una corretta contestualizzazione, una necessaria, imprescindibile vicinanza e comprensione nei confronti del paese invaso (che, ripetiamolo, è chiara ed evidentissima in molti altri artisti russi), e soprattutto manca, forse, il giusto tempismo. Perdonare, umanizzare, avvicinare i propri nemici o chi ci ha fatto del male è un processo che richiede anni, e che non può essere preteso proprio dalla parte che è collegata con chi quel male lo ha compiuto e lo sta ancora compiendo. Il perdono non è un moto superficiale di comprensione, è un lavacro di dolore che matura e fluisce sul mare del sangue versato, e che probabilmente richiede come primaria condizione la cessazione dei crimini, purtroppo ancora in corso. 

Non possiamo fare il processo alle intenzioni (ci mancano comunque ancora alcuni elementi, che proveremo a recuperare in futuro, magari rivedendo il film con ancora maggiore attenzione, quando in primavera sarà messo gratuitamente online, come dichiarato dalla troupe), dunque non ci sentiamo in grado di confermare quanto hanno dichiarato alcuni nostri colleghi russi, ossia che “Russians at War” è un esempio di intelligente soft power e moderata propaganda tendente a detonare certe narrazioni troppo negative e critiche verso la russia, non riusciamo ancora a capire se la regista abbia fatto un gioco ben riuscito di “whitewashing” o sia davvero una ingenua santarellina che alla conferenza stampa dopo la proiezione veneziana dichiara cose come: “In una guerra non si può sostenere solo una parte, altrimenti si alimenta l’odio”, “bisogna guardare anche dall’altro lato”, “durante la mia permanenza non ho visto alcun crimine di guerra contro i civili”, “troppi ponti sono stati distrutti fra l’occidente e la russia”. Ma i ponti distrutti in Ucraina la nostra pacifica Nastja non li menziona. Purtroppo queste ed altre sue dichiarazioni si iscrivono molto bene in alcune narrazioni che abbiamo sentito diverse volte da quei sostenitori della russia che, pur non approvando apertamente la follie del cremlino o la ridicola propaganda televisiva delle emittenti moscovite, hanno pur tuttavia cercato di “ammorbidire” la situazione, magari con secondi fini malcelati o parzialmente dichiarati, come il tentativo di far togliere parte delle sanzioni adottate contro la russia, di indebolire il sostegno internazionale all’Ucraina o di confondere nelle menti dei non addetti i lavori le posizioni fra aggrediti e aggressori. Per noi, umili commentatori italiani tranquilli al calduccio delle nostre case, è difficile credere alla voce dei nostri amici russi che considerano questa ragazza una figura eterodiretta e manipolata, probabilmente da oligarchi o gruppi di interesse filorussi. Noi, da italiani e amanti del cinema russo veramente umanitario, non possiamo affermare che questa sia un’operazione studiata a tavolino, una furbata della quale con il tempo bisognerà rendere conto, ricostruendo i fili nascosti di un’ulteriore “operazione speciale”. Ma, da amanti del cinema russo, forse dovremo fare uno sforzo e credere ai nostri amici russi che sostengono questa triste e sconsolante interpretazione…