È ben nota la tragica avventura delle truppe italiane mandate allo sbaraglio in Unione Sovietica da Mussolini, con la promessa e la certezza di tornare presto vincitori. Fra le innumerevoli vittime di quella sventurata spedizione alcune lasciarono testimonianze visive e narrative che ancora oggi non hanno perso il proprio prezioso valore documentale e ispirano purtroppo dolorosi paralleli con eventi tuttora attuali.

Il varco di Federico Ferrone e Michele Manzolini apre un passaggio nella memoria e nello spazio europeo che man mano che il film procede si allarga e diventa fessura, strappo, ferita nel tessuto storico del nostro continente. I due filmmaker, dopo l’ottimo lavoro di ricerca e montaggio fatto con Il treno va a Mosca, continuano a perseguire una strada non facile ma fruttuosa lungo la traiettoria del ricordo e sull’asse delle connessioni fra l’Italia e quella che un tempo fu l’Unione Sovietica. Se nel loro lavoro precedente ricostruivano la vicenda di alcuni italiani presenti al Festival Mondiale della Gioventù di Mosca del 1957, qui la motivazione della “visita” dei nostri connazionali è tutt’altro che festosa: si parla infatti in particolare delle truppe fasciste mandate sul fronte ucraino a dare man forte all’invasione nazista.

La cifra stilistica di Ferrone e Manzolini, che ci sembra qui delinearsi in modo ancora più netto e maturo, è quella che traccia combinazioni tutt’altro che scontate fra documentazioni e testimonianze alacremente cercate in archivio e una linea fictionale che si muove con delicatezza fra ricostruzione storica e plausibile invenzione: ne Il varco abbiamo infatti a che fare con l’immaginaria ricostruzione del viaggio dall’Italia all’Ucraina sovietica di un soldato italiano di madre russa che commenta le immagini da lui stesso riprese, interrogandosi nei suoi diari sulla propria identità “ibrida” e sulla sua funzione di interprete e trait d’union fra due eserciti in guerra. Man mano che ci si sposta fra nord Italia, Ungheria, Romania e campi assolati ucraini si sente la voce dell’ignaro “invasore di campo” perdere sicurezza e porsi interrogativi sempre più pressanti, voce immaginaria ma reale a un tempo stesso, in quanto ricucita insieme con cura a partire da citazioni tratte da diari privati ed inediti di ignoti combattenti e da opere di memoria bellica più note quali le pagine di Rigoni Stern.

La voce del soldato è quella pacata, ma insistente di Emidio Clementi (voce dei Massimo Volume), che sembra una scelta più che perfetta per accompagnarci in questo viaggio nel Limbo, e realizza un corto circuito fra tempi spazi e dolori che ci costringe all’urgenza di inevitabili domande: quali gli umori dei giovani italiani mandati nell’ignoto, quali le possibili vie di fuga da una violenza imposta e spesso non voluta, quali gli esiti finali, i destini delle voci, dei corpi, delle anime che ce la fecero a tornare?

I materiali filmati sono tratti dal prezioso Archivio Nazionale del Film di Famiglia, mentre la sceneggiatura vede anche il contributo di Wu Ming 2, e opera a volte degli scarti inattesi che arricchiscono ulteriormente la pluridimensionalità del film: da un lato riprese amatoriali risalenti ad un’altra delle nostre scellerate sortite imperialiste, quella in Africa, creano un “contrappunto termico” che prepara l’esplosione mortale del ben noto Generale Inverno; dall’altro i due autori si interrogano su una terra, l’Ucraina, che nel XX secolo ha sofferto come poche le conseguenze di scontri bellici, e istituiscono un’interessante parallelo con il percorso seguito decenni fa dalle truppe. Essi si sono infatti recati in Ucraina (fino al fronte dell’odierno scontro con la Russia, alle soglie delle due autoproclamate repubbliche separatiste), per interrogare prospetticamente luoghi e persone sulla loro condizione umana odierna: sono gli stessi luoghi attraversati dal Corpo di spedizione italiano nel ’41. Vediamo dunque aprirsi a sprazzi dei “varchi” sul presente, che illustrano alti e bassi dell’Ucraina profonda, hic et nunc, nel 2019, quasi a sovrapporre un passaggio ulteriore (questa volta, pacifico) di occhi italiani che si interrogano su un’umanità dolente: sono mercati di cianfrusaglie improvvisati sul ciglio della strada, piazze desolate in cui sopravvivono monumenti di epoche semi-dimenticate, palazzoni semidistrutti durante gli scontri fra le parti avverse.

Il tutto è imbastito con il massimo rispetto per gli esseri umani “protagonisti” e per le terre geografiche attraversate, senza imposizioni ideologiche sovrastrutturali e lungi da spiccioli intenti didascalici: l’impressione finale è quella di una fiaba triste dal sapore sovratemporale, sospesa in un’era moderna indefinita, disseminata di passaggi fra guerre e decenni, di porte dimensionali fra i morti di ieri e i sofferenti di oggi. Fra toni inquieti e recuperi folclorici ancestrali, ci vengono alla mente alcune delle possibili ispirazioni (volontarie o meno) che intessono la “pellicola” (le pellicole, in questo caso): dal cinema antifascista sovietico (con scorci di movimento che ricordano Va’ e vedi di Elem Klimov) ai capolavori animati di Jurij Norstejn, evocati dalle immagini ormai centenarie e sbiadite dell’incipit e dalla fiaba Il soldato disertore e il diavolo (fra quelle raccolte da Aleksandr Afanas’ev) letta in russo a loro commento.

Riassumendo, abbiamo davanti un film che costituisce un ponte doloroso ma reale fra Italia e Russia, ben più realistico e pulsante di molti triti echi cartolineschi relativi agli stereotipi sui nostri due popoli: questo Varco è fatto di preziosa materia atemporale, di memoria vissuta e dolente che ci fa sentire (per citare i Massimo Volume) come il “soffitto di una chiesa bombardata”.