Karlovy Vary: “Papusza” di Joanna Kos-Krauze, Krzysztof Krauze

L’emancipazione di una donna o quella del suo popolo?

La prima poetessa in lingua romanes, e forse la più importante, era polacca. Questo film descrive le sue sofferenze ma anche la limpidezza delle sue parole.

Krzysztof Krauze è uno dei registi polacchi più maturi, e la sua carriera conta già diverse pellicole piuttosto variegate, ma ugualmente interessanti. Il suo esordio nel lungometraggio è del 1988, ma è con Il debito del 1999 che inizia a farsi conoscere meritatamente: è uno studio drastico e senza sconti sulla nuova realtà polacca, piena di squali e avvoltoi che hanno sostituito i funzionari stalinisti. Ora sembra essersi specializzato nei bio-pic atipici sugli artisti eccentrici della sua patria. Nel 2004 vinse qui a Karlovy Vary con un affettuoso ritratto del pittore autodidatta Nikifor (una sorta di Ligabue polacco), ora presenta in concorso la storia di Papusza, ovvero “bambola”, come veniva chiamata la poetessa Rom Bronislawa Wais. In entrambi i film lo ha aiutato la moglie, che qui figura come co-sceneggiatrice e co-regista.

Questo tocco femminile di Joanna Krauze contribuisce positivamente alla definizione della protagonista, sensibile ma abituata alle durezze della vita da nomade, donna forte ma pur tuttavia costretta dalle leggi ataviche ad un ruolo di obbedienza.
Come le altre figure femminili del suo clan, non avrebbe mai potuto esprimere liberamente il proprio talento e sarebbe rimasta voce inascoltata, ma il soggiorno biennale del poeta polacco Jerzy Ficowski (in fuga da un mandato di cattura) in un campo Rom, gli permise di scoprire la poetessa e di pubblicarne i versi nelle riviste letterarie dell’epoca. Krauze dipinge con rispetto e senza facili generalizzazioni la vicenda artistica di questa artista popolare sullo sfondo delle difficoltà legate alla sua etnia e alla storia polacca del secolo scorso.
Oltre ai comprensibili problemi di integrazione e alla durezza del regime politico, per questa polacca Rom le difficoltà più forti vennero dal rifiuto della sua stessa gente: il film racconta infatti la condanna cui andò incontro da parte dei suoi stessi consanguinei quando era ormai divenuta un esempio di donna troppo indipendente e diversa dal modello prevista nella sua cultura.

Krauze ha due grossi meriti: evita le esagerazioni patetiche e le semplificazioni su base etnica da un lato, dall’altro adotta uno stile narrativo non da pedissequo bio-pic. I continui flashback e la linea temporale frammentaria possono forse mettere in difficoltà uno spettatore poco attento, ma d’altra parte ricostruiscono a larghe pennellate la storia affascinante di questo talento naturale senza adagiarsi su una scansione cronologica tradizionale.
Un altro punto a favore del film è che senza imposizioni ideologiche esso spinge a valutare la complessità dell’integrazione dei Rom: da un lato i continui paralleli, anche musicali, con i destini degli Ebrei ricordano le continue persecuzioni cui entrambe le etnie sono state sottoposte. Dall’altro non si nascondono i punti di attrito con la cosiddetta civiltà urbana occidentale, primo fra tutti la difficile posizione del sesso femminile.

Krauze si avvale della collaborazione di due dei migliori direttori della fotografia della ben nota scuola polacca, e sfrutta il bianco e nero nitido e terso di Krzysztof Ptak per creare una storia a metà fra l’epica popolare e la ballata senza tempo: le canzoni dei Rom (la maggior parte del film è recitata filologicamente in lingua, anche da attori “gadzi”) e il lento ondeggiare delle loro carovane affascinano lo spettatore capace di entrare in sintonia con una narrazione dall’ampio respiro. Le sequenze sono brevi, quasi micro-storie spezzate da una ricorrente dissolvenza in nero, che dà al film il ritmo dei frutti che maturano senza fretta. Forse l’importanza del tema ci ha portato a perdonare qualche pecca drammaturgica, ma, come dice il poeta Ficowski, “la poesia è una cosa che scrivi per ricordare come ti sentivi ieri”. Cerchiamo di ricordare come poteva sentirsi Papusza-bambola quando i tedeschi la cercavano per sterminarla insieme agli Ebrei nel 1944: “Quante pietre aguzze hanno ferito i nostri piedi! // Quanti proiettili hanno sfiorato le nostre orecchie!”.