Non sappiamo se fosse intenzione scoperta degli organizzatori, ma ci siamo ritrovati in rapida sequenza a dover fare i conti con tre film in competizione che, per usare un eufemismo, “non scaldano il cuore”. Non stiamo parlando in realtà di coinvolgimento emotivo o di qualità artistica, quanto piuttosto di una comunanza “atmosferica” che collega la pellicola norvegese che ha aperto il concorso, quella tedesca e infine quella islandese.
Tutti e tre i registi di stirpe germanica ci presentano ambientazioni tra il freddo e il gelido, cittadine operaie rese poco ospitali dagli elementi, nonché in parte congelate anche dal poco calore umano che vi si respira. Per iniziare con quello sicuramente più riuscito (diremmo anzi: senz’altro un ottimo film) citiamo The Art of Negative Thinking del norvegese ottimo esordiente Bard Breien. I riferimenti che sono stati fatti sono quelli dell’allegra combriccola danese di Von Trier & co., segnatamente quei film irriverenti e sfacciatamente scorretti del periodo d’oro del primo Dogma (non, per intenderci le elucubrazioni in salsa mitologica delle trasferte danesi in America).
Idioti potrebbe essere un termine di paragone se ben mischiato e shakerato con Festen di Vinterberg: un gruppo di elementi umani fra l’asociale e lo psichiatricamente labile si ritrova a casa di un finto ribelle per imporgli un modo “positivo” di affrontare la propria condizione di disabile. A differenza che nel film di Von Trier qui i personaggi sono malati reali (o almeno, lo sono per la maggior parte) e come in Vinterberg all’interno di una notevole e sferzante unità di tempo e di luogo si susseguono scandali familiari, cambi repentini di posizione dominante nel gruppo, imbarazzanti lotte intestine e viltà di vario genere. L’atteggiamento che però contraddistingue questo promettente regista norvegese (Breien, ricordiamolo, è subito la prima sorpresa del festival) è che il nostro si fa beffa di tutto senza cervellotici amletismi da dramma psicologico: questa è a tutti gli effetti una commedia, nera e sgradevole quanto si vuole, ma nella quale si ride non per l’imbarazzo e la violenza psicologica cui ci ha abituato il Dogma danese, bensì proprio per il più classico processo della costruzione di gag dal tempismo perfetto e per la qualità dei personaggi.
Breien è qui anche autore dello script, va rammentato, e riesce a combinare con incastri fulminanti le ondate di opposti sentimenti che si alternano nel sedicente gruppuscolo terapeutico. Il protagonista Geirr ha gli anni di Cristo, e se non soffre come lui, ha comunque una sua bella croce: costretto sulla carrozzella ed impotente, è molto vicino alla separazione con l’ormai esasperata Ingvild. Quando il gruppo di invalidi guidato da una ipocrita dottoressa da Esercito della Salvezza gli piomba in casa per costringerlo a cambiare in meglio, questi comincia la sua particolare campagna di “diffusione del pensiero negativo”: pessimismo e parolacce in dosi massicce condite dal folk di Johnny Cash, i film sul Vietnam e una giusta mistura di alcol e hashish. La terapia porterà qualche buon effetto, ma solo quando al posto del volontaristico e pietoso approccio della terapeuta subentrerà il tourbillon di trovate alla Animal House del buon Geirr, che costringe i suoi “nuovi amici” a non nascondersi dietro l’illusione di un ottimismo prestampato sulle labbra. Una bella prova corale, che ricorda quanto (anche nei regimi totalitari) l’ottimismo imposto dall’alto porti molto lontano dalla vera felicità e che invece ogni tanto bisogna avere il coraggio di vedere tutto nero per far baluginare la famosa luce in fondo al tunnel.
Myrin (qualcosa come “Acque stagnanti del nord” ci hanno spiegato) è un thriller islandese sulle malattie genetiche con riferimenti ad un caso molto discusso negli ultimi anni dalle parti di Reykjavik. Il regista Baltasar Kormakur (a qualcuno nei festival è noto per il suo esordio 101 Reykjavik, premiato a Locarno) si riallaccia a certe pretese degli istituti di genetica di poter mappare la popolazione islandese al fine di prevenire il ripresentarsi di potenziali tare e deformazioni, ma pone anche in modo urgente il dubbio se sia sempre morale o psicologicamente opportuno rivangare i misteri della propria origine genetica e dunque della propria identità. Il film si vorrebbe rifare con un certo piglio sociologico al genere dei detective solitari e dei piccoli mostri di provincia, ma a tratti “si siede” su certe tipologie da serial televisivo, e non sempre fa bene i conti con gli stereotipi. Non per questo è però disprezzabile, ché anzi riesce a conferire una immagine triste e banale del male e dei cattivi di mezza tacca che popolano anche le lande desolate della lontana Islanda, coraggiosamente illustrata come terra inospitale e stranita (e forse per questo, molto esotica e attraente…).
Kormakur si avventura in una costruzione a due linee narrative il cui intersecarsi iniziamo forse a intravedere un po’ troppo tardi; si muove con una certa sicurezza in scenari cui riesce a dare un taglio simbolico (gli istituti di ricerca, l’appartamento dell’investigatore macerato e chiuso in sé) e aggiunge perfino un paio di tocchi di maledettismo quando inizia a scavare fra vecchi cadaveri e cimiteri in riva al tempestoso mare del nord. Annotazioni ironiche ce ne sono (anche gli islandesi ridono) ma la cosa che ha più divertito il pubblico giovane di Karlovy Vary è lo scoprire con quanta convinzione e nonchalance sull’isola atlantica si possano mangiare teste di capra neanche fossero panini al salame.
L’ultimo film del nostro lotto è quello che meno ci convince, sebbene già dalle sue dichiarazioni la regista tedesca esordiente Elke Hauck abbia sottolineato l’intenzionale piglio semidocumentaristico della vicenda. Karger è il nome del film, e anche quello del protagonista eponimo, che rappresenta un modello quasi ideale di trentenne comune e semifallito che (con stili diversissimi) potrebbero sviluppare da un lato i Deardenne, dall’altro Guediguian o forse Loach. Qui non si arriva però né ai toni esistenziali e scarni dei fratelli di Rosetta, né tanto meno a una qualche presa di coscienza operaia: questo Karger è una sorta di nuda e cruda tranche de vie di una cittadina tedesca portata sullo schermo da non professionisti che non sono molto lontani dalle condizioni descritte nel film stesso. Il pretesto di una riunione di vecchi alunni porta la regista Hauck, gli attori-personaggi e noi pure ad interrogarci sulla possibilità di fare bilanci e capire come mai non si sia mai usciti da un buco di periferia e da una vita imposta dalla nascita e non scelta coscientemente. Il tranquillo operaio appena divorziato e licenziato si muove per forza di inerzia con l’istinto animale di un essere vivente incastrato in una delle tante fogne del mondo, senza una leva che lo possa cavar fuori. Tale leva non sarà l’amore, né il lavoro, né tanto meno un qualsiasi spunto ideale. Tutto rimane così com’era (forse anzi un po’ peggiora). Purtroppo rimane in uno stato di distratta apatia anche lo spettatore, che è indeciso se prendere il film per quel che è (una triste e realistica fotografia di una zona poco attraente del centro Europa) o andare alla ricerca di una qualche chiave di lettura metaforica o di colpi di reni registici. I quali purtroppo non ci sono, motivo per cui anche noi lasceremo il buon Karger alla sua fredda e monotona vita.