Si è chiusa con un parterre di premi che non era facilmente prevedibile questa buona quarantaduesima edizione del festival ceco di maggior prestigio europeo. Il premio principale, il Globo di Cristallo al miglior film, è andato al concorrente islandese, Myrin del quarantunenne Baltasar Kormakur. Il titolo inglese del film è Jar City (“città dei barattoli”), il che si riferisce alla sala dell’istituto di genetica in cui sono conservati in formaldeide feti, bambini malformati, cervelli e quant’altre malformazioni madre natura abbia voluto produrre e l’uomo abbia dovuto e potuto raccogliere per fini scientifici. In realtà, anche se la genetica e la possibilità di ricostruire a ritroso le origini dell’individuo sono uno dei temi portanti della pellicola (ispirata da eventi reali), il titolo originale islandese richiama più che altro le paludi, le acque stagnanti in cui sembra affondare una melmosa e poco rassicurante Islanda, dove dietro la tranquillità di un popolo alquanto “esotico” e silenzioso sembrano nascondersi misteri e tare degne del ventre molle statunitense tratteggiato dall’Eastwood di Mystic River o dagli incubi di Lynch e Cronenberg. A chi scrive il film in questione era sembrato poco più che un buon thriller in salsa nordica e fumi di geyser atlantico, ma la Giuria composta da professionisti di tutto rispetto (presidente era il direttore di “Variety” Peter Bart, coadiuvato fra gli altri dal produttore italo-tedesco Karl Baumgartner e dal nostro Daniele Gaglianone) ci deve aver trovato qualcosa di più, magari apprezzando in particolar modo le atmosfere misteriose e l’approccio senza compromessi e sconti morali del regista nei confronti della propria stessa nazione.
Il Premio Speciale della Giuria è stato poi assegnato ad un film che ci è piaciuto davvero poco, l’australiano Lucky Miles, storia di buoni sentimenti e realismo a tassi infimi su un gruppo di disperati del terzo mondo che arrivano sulle coste dell’Australia con la speranza di cominciare una nuova vita più dignitosa. Un coacervo mal assortito di profughi iracheni della prima guerra (siamo agli inizi degli anni Novanta), di cambogiani e giavanesi viene scaricato senza tanti complimenti nel bel mezzo del deserto dell’Australia occidentale, e noi siamo costretti a seguire il loro vagabondare un po’ casuale fra palme, dune assolate e drappelli di poliziotti ben poco accoglienti. Di sicuro il lato tecnico della pellicola è di valore (la fotografia calda che illustra senza compiacimenti la natura australiana, la presa diretta che restituisce gli accenti dei profughi con il loro inglese stentato), ma siamo altrettanto certi che più che il merito intrinseco dell’opera sia stato premiato il senso morale e la bontà delle intenzioni del regista Michael James Rowland.
Si può essere invece totalmente d’accordo con il riconoscimento andato al norvegese Bard Breien che si porta a casa il Globo di Cristallo come migliore regista: già dopo la proiezione del suo The Art of Negative Thinking avevamo lodato il piglio sicuro, la cattiveria controllata ma non autosoddisfatta e la verve registica di questo esordiente, che speriamo continui come ha iniziato. La sua storia di veri e presunti “handicappati” (ma lo sono più che altro a livello psichico) riesce a convincere anche il più radicale buonista veltroniano della necessità di una buona dose di sincerità e sana cattiveria nell’affrontare i casi tristi della vita. Il personaggio principale, il ribelle senza (quasi) una causa Geirr, appassionato di Johnny Cash e di film bellici costretto sulla sedia a rotelle, rimane ben stampato fra i figli di buona donna più simpatici degli ultimi anni cinematografici.
Ad ogni modo il miglior attore maschile è stato trovato dalla Giuria nel russo Sergej Puskepalis, protagonista a tutto tondo di Simple Things (Prostyje veš?i), buon concorrente a cui è andato fra l’altro anche il premio della Giuria Ecumenica e quello FIPRESCI dei critici cinematografici internazionali. È un film che sembrerebbe dunque aver messo d’accordo tutti, dagli addetti ai lavori della stampa specializzata al pubblico (che in sala ha applaudito convinto) fino ai sostenitori del cinema come mezzo di propagazione di valori umani e religiosi. A differenza del premio speciale al film australiano, verrebbe da dire, questa storia cechoviana di “uomini con una coscienza” coniuga i buoni sentimenti con un’ottima regia e una sceneggiatura coinvolgente. Di buone interpretazioni maschili comunque se ne sono viste diverse: basti riandare al Jean-Pierre Darroussin di Dialogue avec mon jardinier, al sempre bravo e piacevole ceco Zdenek Sverak o al già citato “bastardo” norvegese Geirr di Fridtjov Saheim.
Fra le donne ha invece trionfato (ed era giusto almeno un riconoscimento per l’ottimo film spagnolo di cui è protagonista) Elvira Mínguez, intensa madre di famiglia colta nel bel mezzo di una crisi familiare generale, che nel bel Pudor degli esordienti fratelli Ulloa ben esemplifica con la sua interpretazione le difficoltà di comunicazione nella famiglia borghese sorpresa dalla noia di vivere e dalla disgrazia che non ti aspetti. C’è da dire anche che per questa categoria le concorrenti di rango erano poche; verrebbe giusto da ricordare la buona prova delle due attrici del film polacco Piazza del Salvatore, Jowita Budnik e Ewa Wencel, ma va bene anche così.
Siccome poi i cechi non si potevano far sfuggire la ghiotta occasione di premiare in qualche modo il film di casa, un riconoscimento speciale è andato alla sceneggiatura di Empties di Jan Sverak (Vratné lahve, che prevedibilmente ha vinto il premio del pubblico, assegnato dagli sciami di giovani appassionati cechi che riempiono sempre le sale), scritta dal padre del regista, il grande attore Zdenek Sverak. Per quanto lo sceneggiatore (e cabarettista, e attore di teatro…) in questione sia decisamente fra i nostri attori cechi più cari e sebbene in passato sia stato autore di script davvero notevoli, in questo caso il suo testo manca di mordente e si adagia su una conclusione un po’… inconcludente, per cui c’è da essere molto più d’accordo sull’altra menzione speciale conferita dalla Giuria, quella all’anziano attore ucraino (è nato a Kiev) Leonid Bronevoj, che nel già citato (e premiato) Simple Things offre una figura autunnale, ma non sconfitta, di vecchia gloria del cinema.
Il nostro Saturno contro non sembra aver lasciato traccia nel cuore dei giurati (e non è che ci aspettassimo chissà quali sfracelli dal discreto artigiano dei sentimenti Ozpetek), mentre la cerimonia di chiusura ha visto sul palco della sala centrale il buon vecchio Danny DeVito ritirare il Globo di Cristallo alla carriera, che sinceramente ci può stare, anche se sulla sua ultima interpretazione (in concorso c’era The Good Night del fratello di Gwineth Paltrow, Jake) non possiamo esprimerci, essendo stata la proiezione confinata all’ultimo giorno e con ingressi limitati.
Decisamente una buona edizione del concorso comunque, con belle sorprese e nomi non troppo altisonanti da distrarre l’attenzione critica o da far sperare illusoriamente nel capolavoro: tanto più ci si gode così in questo piccolo grande festival la “regolarità della buona qualità”.