Documentario d’avanguardia più sul campo di battaglia che cinematograficamente parlando, Lissa ammetsajjel (Still Recording) di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub è una preziosa testimonianza del logorante conflitto siriano, che facendo di necessità virtù volge la penuria di mezzi e la rozzezza dei modi di ripresa a proprio vantaggio.

Nel 2011 i due cineasti decidono di lasciare Damasco per partecipare alla rivoluzione, che in men che non si dica diventa una guerra civile senza quartiere. Il film è frutto del montaggio del girato raccolto nel corso di più 4 anni di permanenza a Duma, dove, a pochi chilometri dalla capitale, il confronto tra lealisti e ribelli miete ogni giorno nuove vittime.

Lissa ammetsajjel (Still Recording)

Ne abbiamo parlato durante Locarno71 in occasione del discutibile Chaos di Sara Fattahi: di Siria si è parlato tanto, forse troppo, e il cinema in questi anni non sempre è riuscito a far meglio dei media per ampiezza e qualità della riflessione. Non è questo il caso di Al Batal e Ayoub, che partono dal presupposto dell’impossibilità a raccontare una realtà che non può essere mediata, in quanto ancora manca un linguaggio adeguato allo scopo: i principi appresi nella loro prima lezione di cinema – rispetto della continuità, tagliare i soggetti inquadrati secondo le proporzioni dell’uomo vitruviano, fluidità della macchina da presa – sono elusi sin dal principio, e da questa elusione la loro rappresentazione trae forza. Rappresentazione appunto, perché un racconto si può pure provare a imbastire, per esempio spezzando la routine di morti e battaglie con qualche scena dalla Damasco pacificata – o meglio sottomessa – dalle truppe di Assad, o con una serata passata a bere e divertirsi, ma il sangue e i cadaveri inquadrati – tra cui si contano anche quelli di operatori di macchina uccisi nel corso del progetto – sono reali.

L’atteggiamento nei confronti della guerra non è, e non può essere, uniforme. A volte i colpi di mortaio sono lontani ed è facile lasciarsi andare a una battuta di spirito, spostando l’obiettivo su qualcosa che risuona con la sensibilità di chi riprende; altre volte invece un carro armato può far capolino in un vicolo e allora mantenere la messa a fuoco e far attenzione a cosa si inquadra diventano un vezzo inutile, se non letale. Tale approccio semi-amatoriale viene utilizzato anche quando le circostanze non lo richiederebbero: un modo di fare cinema che non si pone grandi questioni teoriche e punta a catturare tutto nell’istante in cui avviene, così fornendo una pur minima impressione di continuità. Il contesto, d’altronde, non cambierà dall’oggi al domani.

still recording

Certo alcune sezioni ce le si poteva risparmiare, per esempio i confessionali col cuore in mano dei due registi – le parti meno interessanti dell’insieme – o le occasioni in cui, con un certo autocompiacimento, questi vengono fermati da un passante che critica il loro modo di vestire o le loro azioni. Nonostante queste velleità il rigore dell’indagine di Al Batal e Ayoub non risulta mai scalfito, sicché lo spettatore può aggiungere Still Recording al suo bagaglio e spargere la voce su cosa realmente sta accadendo in Siria.