La seconda stagione di Mayans M.C. non è iniziata sotto i migliori auspici. Pochi giorni prima della premiere è uscita la notizia del licenziamento di Kurt Sutter, creatore della serie e dell’universo di Sons of anarchy che funge da cornice anche per questo spin-off. Ufficialmente i motivi che hanno portato a questa decisione riguarderebbero la professionalità dello stesso Sutter, ma questi non ha esitato a fornire la sua visione della faccenda con una lettera aperta in cui biasimava la produzione, asserendo inoltre che la rocambolesca estromissione è dovuta sostanzialmente alla battuta su Walt Disney e gli ebrei con cui apre l’episodio Xbalanque (2×01).

Non possiamo certo esprimerci sui presunti comportamenti inadeguati di Sutter perché non abbiamo modo di sapere cosa sia successo durante le riprese, ma non ci si può semplicemente dimenticare che nemmeno due anni fa la Disney ha acquistato e incorporato la FX; non sarebbe certo la prima volta che una dirigenza subentrante comincia il proprio lavoro liberandosi delle figure più ingombranti trai vecchi dipendenti – descrizione a cui Sutter corrisponde in pieno. Quel che ci interessa più da vicino però non riguarda tanto i pettegolezzi e i rancori, ma le modalità con cui tutto ciò può riflettersi sul prodotto finale, dapprima per quanto concerne questa seconda stagione, ma soprattutto la prossima, che sarà la prima con Elgin James a capo della writing room.

Il plot

Ci eravamo lasciati con EZ sconvolto dal possibile incontro con l’assassinio di sua madre (Happy, direttamente da SoA) e frustrato dalle tensioni con il fratello Angel. Ma più si scava, più emerge un legame strettissimo tra la famiglia Reyes e la precedente generazione del Galindo cartel. Sul versante opposto lo stallo tra il cartello, Potter e los olvidados cade quando tutte e tre le parti in gioco fanno la propria mossa, rompendo quel sottile equilibrio creatosi nella prima stagione, e il DOJ ritorna in una posizione di forza catturando Adelita e usando il figlio appena nato di lei come leva. Il charter di Santo Padre invece ha finito per infilarsi in una situazione talmente scomoda nel voler interpretare il morto nella partita a tressette tra potenze molto più grandi al punto che l’unica via d’uscita è un’espansione violenta che collocherebbe il club a tutt’altro livello in termini di influenza, potere e industrializzazione, in aperta contraddizione però con i principi fondativi. Principi che si mettono proprio tra i Mayans e il loro futuro quando riaffiora il vecchio rancore con i Vatos malditos.

La serie

Nessuno scappa (d)alla macchina: è il leitmotiv di questo ciclo di Mayans M.C., e casualmente vale tanto per ciò che accade sullo schermo, quanto per la serie in sé e tutto quello che non ha a che fare direttamente con la narrazione. Al giro di boa della stagione una sottotrama poco interessante a fini dello sviluppo globale del plot ci permette invece di andare più a fondo nella psiche e nelle indecisioni di Bishop, il presidente del charter. Egli rivela a EZ che si sente in colpa per la morte di un amico per averlo aiutato a entrare in un charter poco lontano facendogli da sponsor e raccomandandolo caldamente nonostante il club non fosse più un posto per persone con sogni di libertà alla Easy rider. È uno snodo fondamentale per la principale linea narrativa della seconda metà di stagione, in cui i membri sono chiamati a compiere una decisione definitiva: abbandonare tutti quei simboli e rituali che ora sono solo rassicuranti pro forma e costituirsi come realtà criminale effettiva o continuare a fingere girando in tondo. Bloccati in un limbo, i Mayans opteranno per un compromesso che non risolverà nessuna questione e li porrà in una posizione estremamente vulnerabile in vista della terza stagione.

I compromessi non funzionano nel mondo di SoA, mai. Almeno Dita Galindo sembra averlo capito e parallelamente alle incursioni dei centauri messicani nel mondo di Amleto decide di porre fine a tutto quanto, riavvicinandosi a Felipe e fornendo ai figli i pezzi mancanti del puzzle. Rivelazione che non arriva certo improvvisa, ma che chiarisce definitivamente la struttura dei rapporti tra i Reyes e i Galindo e regala nel finale un momento denso di emotività e inattesa spiritualità. Ma se negli ultimi quattro episodi funziona un po’ tutto lo stesso non si può dire della prima metà della stagione. I limiti evidenziati nella prima non accennano ad assottigliarsi, anzi, emergono più evidenti nel momento in cui quell’atmosfera costruita l’anno scorso cessa di essere così nuova e affascinante. Quel coacervo di simboli, sciamanesimo urbano e punk post-apocalittico non è più impenetrabile come un tempo e di pari passo con una visione degli avvenimenti molto più limpida, inizia a serpeggiare il fantasma della banalità dietro gli altarini. Gli espedienti narrativi si fanno più espliciti e riconoscibili, mentre la staticità di alcune situazioni diventa paradossale pur di indirizzare e deviare le conseguenze dei fatti.

Ma più di tutto, non funziona il triangolo Galindo-Emily-EZ. Ognuno dei tre personaggi a seconda delle necessità di scrittura inizia improvvisamente a deficitare di coerenza interna e di trasforma in un deus ex machina pro tempore. La situazione di stallo venutasi a creare è piuttosto imbarazzante, quasi da soap; è chiaro che ora bisognerà uscirne, ma senza appigli – perché questi venti episodi non ne hanno lasciati, guardandosi bene dal modificare anche nel più impalpabile dei modi il rapporto di tensione – suonerà inesorabilmente tutto stonato. Alcune dinamiche hanno preso una piega stucchevole, come se la serie facesse davvero fatica ad abbandonare la struttura di trame e sottotrame episodiche per instradarsi sulla via di un unica linea narrativa orizzontale: le iterazioni (di ambienti, di scambi trai personaggi, di situazioni) a cui è costretta la serie pur di non andare avanti troppo velocemente ricordano i serial di una volta, tanto che, terminata la visione, c’è la viva sensazione che una buona percentuale di quanto visto non sia stato altro che un riempitivo.

In breve: l’ultimo terzo di questa seconda stagione redime solo parzialmente l’ora complessiva che lo spettatore ha speso a vedere JD Pardo aggrottare le sopracciglia tenendosi il gilet per il bavero – e già di suo non è una spada come attore, se poi buona parte del suo screentime è spesa a farci vedere quanto è bravo a fare il bellimbusto è facile impantanarsi.

A Mayans M.C. manca, ormai chiaramente dopo venti episodi, una solida idea di fondo, una linea narrativa densa e capace di dire qualcosa da sé, più che altro finora la serie ha vivacchiato di escamotage senza affrontare la questione di petto. Tutti gli spunti interessanti – perché ci sono – vengono esauriti nel giro di poche puntate, non fanno mai parte di un piano a lungo termine. Non abbiamo personaggi sviluppati caratterialmente a sufficienza per farci colpire dalla scelta di Taza nel finale ad esempio, tant’è che le apparizioni da Sons of anarchy si intensificano, ma si tratta solo di pezze in attesa di trovare una base solida su cui fondare il futuro di questo spin-off.

Cosa aspettarsi dalla terza stagione

Riavvolgiamo un attimo il nastro. La seconda stagione di Mayans M.C. non è malvagia, il risultato finale è più che sufficiente, ma sebbene le puntate funzionino se prese singolarmente, è molto più vuota di quanto non sembri, eccezion fatta per gli ultimi episodi che mischiano di nuovo le carte. L’anno scorso a questo punto invocavamo una sgasata, un’accelerata, qualcosa che non facesse sprofondare la serie nelle sabbie mobili dello spin-off fine a se stesso e alle tasche dell’emittente, ma non abbiamo beneficiato di nulla di tutto questo, anzi, come già accennato tutto il bel contorno creato nella prima stagione (la questione linguistica, la storia di confine) inizia a perdere sapore quando il piatto principale è privo di sostanza.

Sul versante opposto nemmeno Mayans come prodotto, al di là di tutto, sfugge alla gigantesca macchina disneyana. La sfida della prossima stagione sarà reimpostare l’intera serie distanziandosi dalla dispersione di quest’ultima decina di puntate e soprattutto evitare di farsi soffocare dal “vatuttobenismo” che inizia a filtrare. Il mondo dei Mayans è sporco, cattivo, grottesco, senza dio e disturbante, così come sembrava nei primi episodi: i bambini muoiono, vengono violentati e vengono venduti come schiavi, il cartello non distingue tra esseri umani e porci perché tutti galleggiano nel fango allo stesso modo, ogni labile morale è sottoposta agli ingranaggi di una violenza malata. Se con Sutter perdiamo anche questo (e non è affatto scontato, magari il “parricidio” darà una scossa a una serie bloccata e fuori tempo massimo), allora otteniamo solo un appuntamento action come tanti nel prossimo autunno; in caso contrario, Mayans M.C. avrà ancora qualcosa da dire.