Intervista ad Alberto Anile, autore della biografia “Orson Welles in Italia”

Sei anni dimenticati

«L’unico modo per far rivivere Orson Welles è dargli per palcoscenico un libro». Così Alberto Anile spiega il suo ultimo lavoro. “Orson Welles in Italia” ricostruisce stroncature, avversioni di intellettuali e produttori, cronache rosa e incontri con politici di cui è stato protagonista il cineasta nella penisola.

Il palcoscenico è quello che va dal ‘47 al ‘53. La sorte dei divi d’oltreoceano. Roma si “abitua” presto e poi li ignora. In un Paese provato dalla guerra, le sue “forme” roboanti si scontrano con l’analisi non spettacolarizzata del neorealismo. Lui: un «corpo estraneo». Il suo cinema: «troppo di destra». Richiama alla mente, per la «visionarietà», le pellicole fasciste. Trovare posto su un territorio così ostile è difficile. E Welles, prima di fuggire, risponde con rabbia e costringe tutti ad uno scontro.
Premiato come “Miglior Libro dell’anno di un autore italiano sul cinema”, il testo, spiega l’autore, riflette «sulla violenza che le migliori penne adoperarono contro Macbeth, La signora di Shanghai e Citizen Kane».
Oggi la colpa si dà all’«industria italiana di non aver saputo riconoscere un grande talento». Il mercato americano, con più sagacia, trasforma tutto ciò che ri-scopre… nel “segreto” di Orson Welles. Quante ancora le identità da mettere a fuoco e l’amarezza nelle persone che l’hanno conosciuto. «Mandava a quel paese tutti e prendeva a calci i macchinisti. L’esperienza con lui sul set era drammatica. Era però un grande regista… nei movimenti che faceva, la recitazione perfetta e quella voce stupenda che leggeva Shakespeare. Perché era quello che più voleva fare e dove incontrava maggiori ostacoli. Questo era Orson Welles».

L’esigenza di scrivere un libro su Orson Welles nasce solamente dal desiderio di rendere giustizia e riscattare, in qualche modo, il lavoro di quello che oggi è considerato una tra le maggiori personalità della storia del cinema o esistono altre motivazioni che l’hanno spinta ad intraprendere questa indagine?

La spinta iniziale è stata molto semplice, quella di rivedere, risentire e approfondire un genio assoluto come Welles; non essendo più contattabile, per cessata esistenza biologica, l’unico modo di farlo rivivere è cercarlo nei documenti che ci ha lasciato, e quindi dargli per palcoscenico un libro; e infine cercare insieme a lui di capire alcuni aspetti della sua vita e della sua opera rimasti finora misteriosi. Penso che anche altri scrivano libri (biografie e saggi) sulla base della stessa spinta. Poi, nel corso delle ricerche e della scrittura, saltano fuori nuovi e vecchi enigmi, piccole e grandi sfide di interpretazione, che ti spingono in direzioni impreviste. In un certo senso è anche vero che i libri si scrivono anche un po’ da sé.

Quanto è costata la sua ricerca in termini soprattutto di difficoltà nel reperire materiali e documenti che ricostruissero gli anni del soggiorno italiano di Welles?

La gran parte del lavoro, e cioè alcuni anni. Ma non vorrei si pensasse a ricerche archeologiche particolarmente avventurose, a fondi inaccessibili o antichi bauli dimenticati in soffitta. Nella maggior parte dei casi basta andare in biblioteca, e cercare pazientemente notizie nei giornali microfilmati, orientandosi con le date di alcune recensioni o di altri eventi già appurati dalla saggistica corrente. Oggi il presente viene raccontato moltissimo da Internet, di cui non rimarrà quasi nulla, e da giornali che si basano su fonti sempre meno primarie: attingere alle riserve cartacee delle biblioteche è perciò sempre sorprendente, perché permette di entrare subito in contatto con notizie reali, assai poco sofisticate o adulterate come quelle di oggi. Una miniera che, per la fatica che spesso comporta il recupero dei documenti e la loro consultazione nelle biblioteche italiane, rimane spesso ad ammuffire e macerare inutilizzata.

Nello scrivere un libro su un cineasta di cui si è parlato così tanto come Orson Welles può venire a volte il timore di cadere in cose già dette e già sentite. Nel suo caso forse è stato diverso, dal momento che racconta un periodo in particolare della sua vita. Prima di lei altri autori hanno posta la stessa attenzione nel raccontare cosa realmente avesse caratterizzato la visita del regista nel nostro Paese?

No, ed è stata una delle molle che hanno sostenuto il mio lavoro. Di Welles, come di tanti altri grandi nomi, si raccontano spesso sempre le stesse poche cose, ma esistono a volte dei grossi buchi nelle loro biografie e nell’interpretazione critica delle loro opere su cui nessuno si dà la pena di indagare. In questo caso si era anche quasi persa la stessa nozione di un Welles “italiano”, e mi sembrava perciò interessante cercare di scoprirne qualcosa; strada facendo, mi sono accorto che il vero mistero di questa mancanza (e contemporaneamente la sua recondita ragione) stava nella veemenza critica, ai limiti dell’insulto, con cui una grossa fetta della nostra critica accolse e recensì in quel periodo il suo cinema.

Welles è stato protagonista di tante stroncature e ha dovuto affrontare degli ostacoli, anche di tipo economico, per realizzare i suoi film. Mettendo da parte per un attimo la sua eccentrica personalità, che sicuramente ha contribuito ad attirare forti antipatie, crede che siano stati altri i motivi alla base dei giudizi negativi riguardo i suoi film e del duro scontro che Welles ha avuto con la critica? Se c’è stata una sorta di invidia, intendo, verso un cinema che appariva così prepotentemente innovativo?

Più che invidia, forse gelosia. Alfredo Todisco, che conobbe Welles nel ’48 e che mi ha dato una significativa testimonianza, scriveva all’epoca di una specie di «gelosia di mestiere», originata soprattutto dalla personalità forte e spiccata del cineasta. I motivi cinematografici stanno comunque da un’altra parte, nell’acceso, a volte cieco, patrocinio da parte della critica – soprattutto di sinistra – del nascente neorealismo, uno stile (meglio: una poetica, un atteggiamento) esteticamente agli antipodi rispetto alla visionarietà di Welles, alla sua passione per Shakespeare, al suo ribollire visivo, e alla sua insofferenza per un certo moralismo di cui il cinema italiano di allora si faceva, consapevolmente o meno, portatore. Difendendo il neorealismo, o una certa idea di esso, i critici di allora si costringevano in un certo senso a sparare a zero contro Welles. Il quale, essendo un bastian contrario per natura, ci metteva anche un po’ del suo, e appena poteva parlava male dei neorealisti italiani e di Rossellini in particolare. E qui torniamo al discorso sulla personalità…

Alvaro Mancori, direttore della fotografia e operatore ufficiale di alcune pellicole wellesiane, dà la colpa a Roma per spiegare la «carica di cattiveria» di Welles. Nel senso che Roma, in quegli anni, tendeva ad “abituarsi” presto di tutti quei divi del cinema straniero che sbarcavano nella penisola e con la stessa velocità tendeva a dimenticarli. È d’accordo con le parole di Mancori?

Certo. Come sostengono nel libro anche altri testimoni dell’epoca, Franca Faldini per esempio, Roma è sempre stata velocissima a dimenticare le star celebrate appena un attimo prima. Lo riscopro ogni giorno vivendo in questa incredibile e spettacolare città: il romano ha visto passare Audrey Hepburn in lambretta e Tom Cruise in motoscafo, e convive continuamente con piccoli e grandi divi del cinema e della tv che hanno scelto di viverci; è sempre assediata da troupe e set, ma ci ha fatto il callo. Può stupirsi e andare a chiedere un autografo, o fare follie per alcuni mesi per un fenomeno come il primo Grande Fratello. Ma l’entusiasmo è destinato a durare al massimo una stagione, le pietre antiche del Colosseo hanno come instillato nei romani il cinismo e l’indifferenza dell’eternità rispetto a cose fatue come la celebrità. Che poi fosse questo il motivo per cui Welles reagisse “male” contro gli italiani, io non credo: la sua personalità spiccata e la sua indipendenza un po’ scapestrata hanno ingenerato contrasti anche altrove, in città e nazioni diverse dalle nostre.

Lei afferma che il problema dello scontro tra Welles e la critica non sia stato ancora veramente affrontato e che ci sia sempre stato «un timore reverenziale nello scoprire alcuni altarini» della storia del cinema. A cosa esattamente si riferisce con quest’affermazione?

Al fatto che la gran parte delle recensioni citate nel mio libro non venivano stranamente lette o riproposte da quell’epoca. Anche i critici che anni dopo antologizzarono i propri articoli si sono spesso – comprensibilmente – guardati dall’inserire certe pagine della loro attività che oggi appaiono in tutta la loro assurdità. Essendocene fino a qualche tempo fa in vita parecchi, è normale che la categoria (colleghi, allievi, docenti universitari, etc.) abbia evitato di andare a riesumarle, per evitare le suscettibilità di alcuni di loro, o temendo di perderne i favori. Perché cercarle? Il rischio, sia chiaro, non era quello che andassero perduti singoli casi, con qualche svarione critico o qualche scivolata volgare, ma che svanisse per intero un’atmosfera critica, un periodo della storia, diciamo intellettuale, del nostro paese che condizionò pesantemente non solo la vita di Welles esule in Italia ma anche il suo ipotetico futuro di cineasta dalle nostre parti. I nomi, però, vanno fatti, lo esige l’onestà intellettuale, se non lo scrupolo dello storico, e io ho provato finalmente a farli: Aristarco, Rondi, Casiraghi, Barbaro, persino Moravia e Flaiano. La grandezza e i meriti di questi signori non possono essere cancellati da certi episodi della loro carriera, finora poco noti o nascosti, ma non c’è dubbio che alcune delle cose che scrissero a proposito di Macbeth, Otello o Quarto potere fanno oggi accaponare la pelle.

Nella sezione del suo libro più ricca “a livello di pettegolezzo”, è riportato il resoconto della cena che il regista ha fatto con il segretario comunista Palmiro Togliatti. L’incontro tra i due è stato all’epoca un avvenimento di grande rilievo per la stampa italiana? Potrebbe spiegarci brevemente come è nato l’incontro tra i due personaggi?

La cena ebbe un certo rilievo, compresa la copertina di un settimanale, ma non certo quello che avrebbe se oggi (mettendoci dentro anche la tivù), pur con personaggi di gran lunga meno notevoli, poniamo Tarantino e D’Alema. L’Italia era appena uscita dalla guerra, ed è ovvio che davanti alle Fosse Ardeatine o a Piazzale Loreto il concetto stesso di “fatto clamoroso” doveva essere molto diverso da quello che abbiamo oggi. L’incontro scaturì dalla prepotente curiosità di Welles, che avrebbe voluto anche incontrare De Gasperi e altri esponenti politici, e venne combinato grazie ai buoni uffici di due importanti giornalisti, Luigi Barzini jr. ex «Corriere della Sera» per parte di Welles e Emanuele Rocco dell’«Unità» per parte di Togliatti. Si parlò del più e del meno, dove “il più e il meno” significa anche il Piano Marshall e le strategie comunicative del Partito Comunista Italiano. Poi, dopo un paio di articoli, l’evento si inabissò tra i pettegolezzi e sparì rapidamente, come non fosse mai esistito, ma resistendo nella leggenda. Sono stato molto contento di essere riuscito a farlo tornare quello che era, un curioso, interessante evento di cronaca, e una dimostrazione in più dell’eccezionale attività intellettuale di Welles.

Nel suo libro si accenna anche alla figura di Roberto Rossellini. Com’erano i rapporti tra i due cineasti in quel periodo?
In quegli stessi anni, Rossellini subiva tutta una serie di censure da parte del governo sulla sceneggiatura originale che Sergio Amidei aveva scritto per Roma città aperta. Pensa che questo abbia contribuito ad un avvicinamento fra i due, accomunati dall’aver incontrato degli ostacoli, uno da parte degli intellettuali e l’altro da parte del governo, nella realizzazione dei loro lavori?

L’unico concreto legame tra Welles e Roma città aperta è il fatto che l’americano abbia citato quel film tra i suoi preferiti italiani insieme a Paisà al momento dell’arrivo a Roma. In seguito approfittò di molte occasioni per denigrare il collega romano, con il quale in fondo (ne parlo nell’ultimo capitolo) aveva anche tante cose in comune, come uomo e come cineasta. Pare anche, l’ho trovato su una rivista francese, che Welles fosse entusiasta del Miracolo, la seconda parte di Amore di Rossellini, e che si fosse stupito per la tolleranza accordata dal Vaticano (il film, comunque, sarebbe ancora dovuto uscire, e negli Stati Uniti sarebbe poi stato praticamente scomunicato). Sembravano esserci le premesse per un buon rapporto di colleganza, forse anche per qualche progetto insieme, ma le dichiarazioni successive di Welles su Rossellini fanno sospettare dei disaccordi che li separarono irrimediabilmente.

Ora che la sua indagine su Welles si è conclusa può dire di essere riuscito a far luce su tutti i lati oscuri del cineasta americano?

Impossibile. Non mi azzarderei a dirlo neanche dei sei anni “italiani” scandagliati nel mio libro; su quelli rimangono tanti piccoli e grossi dubbi, non ultimo proprio il rapporto personale (ed eventuali progetti in comune) tra Welles e Rossellini. Un libro (e la sua preparazione) è sempre perfettibile, ma prima o poi deve essere concluso. Non sono, purtroppo e anche per fortuna, come Welles a cui piaceva continuare a rimontare e ritoccare i propri film, fino quasi all’infinito. Se c’è una cosa che personaggi come lui, studiandoli, mi hanno insegnato, è che il lavoro non deve sottrarre tutto il tempo alla vita, perciò, a un certo punto, ho detto basta. Il resto, se qualche volenteroso collega vorrà continuare a cercare, spero di leggerlo al più presto su altri libri.

Editore: Editrice Il Castoro
Isbn: 888033381X
Genere: Biografie
Pagine: 338
Anno: 2006
Prezzo: Euro 26,00