MUSEO DELLE UTOPIE: A PASSEGGIO CON MARX NELLA GROTTA DI SEIANO

Un'altra splendida location al NTFI, ma attenzione a non farle fare tutto il lavoro

Un gradino più su delle ideologie, ci sono le utopie. Perciò se delle prime è stata decretata la morte già da qualche anno, le seconde sono addirittura roba da museo. È questa l’idea alla base dello spettacolo scritto da Pietro Favari e adattato registicamente da Giuseppe Sollazzo, chiamato appunto Museo delle Utopie.

Si tratta di una pièce itinerante, in cartellone al Napoli Teatro Festival 2012, e la location è una di quelle d’eccezione: la Grotta di Seiano. Una galleria sotterranea scavata nella pietra tufacea della collina di Posillipo, per volere di Lucio Elio Seiano, prefetto di Tiberio, e che unisce via Coroglio alla Gaiola, passando per la baia di Trentaremi. Un pezzo di storia del quale non tutti ricordano l’esistenza e che grazie alle forme spettacolari del festival assurge a nuova vita: è già successo nelle passate edizioni ed è uno dei maggiori punti di forza della kermesse.

In questo caso specifico, con “Museo delle Utopie”, l’effetto suggestivo ed emotivo sia reale che metaforico, è fortissimo. Entrare nella galleria è entrare nella storia, sia per i secoli che circondano i visitatori e fanno sentire la loro presenza dalle pareti di tufo, sia per ciò che lo spettacolo mostrerà attraverso il percorso.

Come in ogni Museo che si rispetti, c’è una guida. E chi avrebbe potuto essere, nel regno delle utopie, un Cicerone migliore di Karl Marx? Tocca a lui condurre il pubblico attraverso i cunicoli e farlo colloquiare con Tommaso Moro, che immaginò un’isola dove sviluppare una società “ideale” (Utopia, appunto), Hector Berlioz, con la sua idea della città della musica (Euphonia), e Filippo Tommaso Marinetti, che smontava i canoni classici del mondo letterario e teatrale. C’è posto anche per il Marchese de Sade e il suo ideale “bordello perfetto, dove oltre al cliente, anche la prostituta ha diritto di scelta.

Davvero toccante è il momento in cui si fa la conoscenza del “genero” di Marx, Paul Lafargue, che pare addormentato in poltrona in compagnia di sua moglie Laura. Il teorico del diritto all’ozio spiega le sue ragioni, prima di mostrarci quella che in realtà è la rappresentazione della sua fine: lui e la consorte si suicidarono, con una siringa di acido cianidrico, per impedire alla vecchiaia di intaccarne le forze e, forse, le idee. Morire per non dover fare i conti con la realtà così diversa dall’utopia sognata, cosa che invece toccherà fare a Marx: in un punto della galleria, si troverà faccia a faccia con se stesso, un Karl di qualche anno dopo e, purtroppo, messaggero del fallimento della rivoluzione del proletariato.

Nel complesso, una piacevole passeggiata di un’ora circa, che fa in modo che la Storia intrecci le storie di tutte i giorni. Come, ad esempio, quando Mario Santella, praticamente un istituzione del teatro, smette i panni di Berlioz e diventa personaggio di se stesso, e inizia a raccontare delle “dis”-avventure incrociate lungo il suo percorso per colpa della politica edell’indifferenza. Fino a quanto non fanno la loro comparsa due infermieri che vengono a portarselo via in camicia di forza: anche l’utopia contemporanea del voler vivere di teatro, trova il duro scontro con la realtà.

Ma nonostante i tanti punti a favore, gli elementi da pollice verso non mancano. Innanzitutto, ancora una volta, va fatta una tirata d’orecchie a chi, solo perché siamo a Napoli, automaticamente vuole “napoletanizzare” il racconto, a tutti i costi. È uno stereotipo che perseguita la città campana e del quale sono causa gli stessi artisti napoletani. Antonio Taiuti ha fornito una prova attoriale superba, ma il suo personaggio, Marinetti, ha esagerato con le gag in napoletano. Sì, Marinetti a Napoli c’è stato, e ne ha scritto, ma con 10 minuti (o forse meno) a disposizione per presentarlo al pubblico nella sua versione utopica, usare per quasi più della metà del monologo dialetto e versi partenopei, è molto autoreferenziale e poco attinente alla causa.

Ancora, purtroppo, non si può tacere che si è realizzato concretamente, per alcuni interpreti, quello che è un noto rischio del rappresentare uno spettacolo in una location talmente d’impatto che basta a se stessa per giustificare il prezzo del biglietto: una resa recitativa di scarsa qualità. Nessuno chiedeva particolare carica o pathos. È un tipo di spettacolo, se vogliamo, pedagogico, nel quale il personaggio doveva raccontarsi e non stupire per particolari doti. Ma qualcuno ha dimenticato le battute, qualcun altro è inciampato nelle frasi, rompendo così la magia del momento (con le dovute eccezioni, come i già citati Taiuti e Santella, o Paolo Panaro, il Marx-guida).

E per finire: basta installazioni di arte moderna riempi-spazio.
-Bellissima Migliora te stesso per migliorare il mondo che racconta, attraverso l’immagine di un crocifisso e una voce registrata, i patemi dell’attore. Straziante il Tunnel degli ebrei, che con giochi di luci ed ombre e frasi strappate a film e documenti d’epoca, ci ricorda che anche la Seconda Guerra Mondiale è nata da quella che era, a suo modo, un’utopia. D’impatto la video-proiezione di un Giuliano Ferrara che si presta a fare il Grande Fratello.

-Ma tutte le altre (bandierine americane su di un letto-croce, tricicli a testa in giù, teste di donne arabe appese alla volta) pur dotate di titoli altisonanti, hanno fornito solo due possibili spiegazioni per la loro presenza: voglia di “intellettualismo” che spesso, più che far riflettere, stona col resto; necessità di tappare una parete troppo scoperta.
C’è un virus diffuso in molte rappresentazioni contemporanee, quello di voler fare e dire “troppo” per non essere tacciati di superficialità. Ma in questo caso, non c’era affatto bisogno di uscire “fuori traccia”: il testo e il modo in cui si è deciso di inscenarlo, sono più che sufficienti a far pensare, e a farci fare i conti con le nostre, personali, e disilluse, utopie.

Produzione Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia

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