“Nascita di una Nazione”

L'Accademia degli artefatti in piazza a Santarcangelo

L’Accademia degli artefatti, in scena al 42esimo Festival di Santarcangelo, porta sul palcoscenico Nascita di una nazione, un ragionamento beffardo sulla tendenza tipicamente Occidentale di imporre la propria cultura a tutti quei paesi ritenuti sottosviluppati semplicemente perché distanti dalla visione europea e americana. E’ una delle diciassette brevi piéces teatrali che compongono il progetto Shoot/Get Treasure/Repeat del drammaturgo inglese Mark Ravenhill.

I quattro attori vestiti da turisti con tanto di valigia al seguito, si sistemano davanti al pubblico e comunicano che la città davanti ai loro occhi è stata distrutta dalla guerra ed ora urge ricostruirla; i continui riferimenti ad un’antica civiltà scomparsa insieme alla città, i dubbi che i personaggi sollevano verso la scelta del proprio paese di dichiarare la guerra, fanno correre immediatamente il pensiero all’Afghanistan e all’Iraq e a quelle città bombardate per creare il suolo propizio alla nascita di una nuova democrazia. La retorica che accompagnava quei conflitti viene presto alla mente suonando ridicola e stonata come non mai; ad ogni modo, fortunatamente, i quattro sono piombati tra le macerie con la soluzione per rimediare a tutta quella sofferenza e distruzione: rivolgendosi direttamente al pubblico come fosse la cittadinanza della civiltà distrutta, presentano, come persuasivi venditori, l’innovativo metodo per rimediare ad ogni male: l’arte guarisce l’anima e la forza del collettivo cancella la solitudine. Gli effetti benefici si possono testare immediatamente e per chiunque volesse c’è la possibilità di iscriversi ad un rapido ed esaustivo corso in grado di insegnare le basi di questa tecnica di liberazione.

Neanche a dirlo, la realtà è ben diversa e la soluzione non è così semplice. L’enorme paradosso che si nasconde dietro le ultime guerre (il pro bono malum che prima piega e mette in ginocchio e poi offre la mano per rialzarsi) si svela per gradi nel corso dello spettacolo, per manifestarsi compiutamente solo nell’ultima scena. L’efficacia e la particolarità dell’opera sta nel rappresentare la nostra cultura nella libertà di espressione che l’arte permette. Quindi gli attori sul palco assumono un doppio grado di credibilità: da una parte danno voce ai personaggi, dall’altro sembrano mettere in scena proprio quelle strategie messe in atto da loro in quanto artisti per superare il proprio disagio esistenziale (l’arte per guarire l’anima); una coincidenza che rende la proposta convincente (e infatti tra il pubblico qualcuno applaude con rinnovata fiducia) ed è in grado invece di donare un effetto ancora più grottesco al significato conclusivo.

Gli attori, in scena senza l’ausilio di alcuna scenografia, recitano nervosamente con un dialogo molto fitto (si completano le battute uno con l’altro) e il dramma procede da una prima situazione piuttosto macchinosa ad una successiva più rapida e sciolta nella quale diventa via via più chiara la direzione intrapresa dallo spettacolo; una riflessione ironica e sferzante che in chiave personale riesce efficacemente a far ragionare su quanto il credo e il modo di vivere secondo cui ciascuna persona agisce ha l’esigenza di essere valido unicamente per se stesso senza avere la presunzione di essere universale.

durata 60′
_ di Mark Ravenhill regia Fabrizio Arcuri con Miriam Abutori, Michele Andrei, Matteo Angius, Livio Beshir, Emiliano Duncan Barbieri
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