Emile de Antonio a Filmmaker 2009

Il documentario di intervento politico prima di Michael Moore

Richiamare Michael Moore, come fa il titolo di questo articolo, a proposito di una rassegna su Emile de Antonio (1919-1989) potrebbe far storcere il naso agli ammiratori di quest’ultimo. Certo, le differenze sono significative. Diversa è la prospettiva ideologica alla base dei loro film (il marxismo per de Antonio, una forma di populismo per Moore). In de Antonio non vi è il narcisismo che porta Moore ad essere costantemente presente nei suoi lavori (ma la carriera di de Antonio si è conclusa con un film autobiografico). Però se qualcuno contrapponesse la serietà di de Antonio alla comicità di Moore, dimenticherebbe che il primo indicava tra i suoi modelli i fratelli Marx e W. C. Fields e pensava al suo film di montaggio su Nixon come a una commedia.

È innegabile che – al di là delle differenze – punti di contatto vi sono. Entrambi hanno realizzato dei film che, alla vigilia della ricandidatura di un presidente repubblicano, si proponevano di contrastare la sua affermazione (Millhouse contro Nixon e Fahrenheit 9/11 contro Bush jr.) – ed entrambi sono usciti sconfitti dalla sfida. Più in generale, entrambi (pur con diversi mezzi: il patetismo, a cui Moore ricorre spesso, non è minimamente nelle corde di de Antonio), si sono proposti con i loro film di intervenire nella realtà politica e di modificarla (cambiare gli orientamenti degli americani sulla guerra in Vietnam – In the year of the pig – o favorire la battaglia per l’estensione della sanità pubblica – Sicko): de Antonio dichiarava che “ho fatto tutti i miei film per cambiare la gente”. Entrambi, anche se in misura diversa e con accenti differenti, hanno utilizzato materiali d’archivio, decontestualizzandoli o ricontestualizzandoli – fra l’altro, le immagini di uno sciopero a Flint, Michigan degli anni ’30, che si vedono nel recente Capitalism: a love story si vedono anche in Underground di de Antonio.

L’ampia, quasi integrale, retrospettiva su Emile De Antonio offerta dall’edizione 2009 di Filmmaker aveva diversi motivi di interesse, non ultimo dei quali quello di consentire di conoscere l’opera di un regista che per diversi aspetti si può considerare un pioniere nel documentario di intervento politico, che oggi – proprio grazie a Moore – ha conquistato una visibilità che non aveva mai avuto.

Sullo schermo del cinema Gnomo di Milano sono passati 9 dei 10 film di de Antonio: Point of order (1963) sul senatore della “caccia alle streghe” Joseph McCarthy, Rush to judgement (1966) sull’omicidio di J. F. Kennedy, In the year of the pig (1968) sulla guerra in Vietnam, America is hard to see (1970) sulla campagna presidenziale del democratico Eugene McCarthy, Millhouse: a white comedy (1971) su Nixon, Painters painting (1971) sull’arte contemporanea americana, Underground (1976) con le interviste ai membri di un collettivo in clandestinità, In the King of Prussia (1982) sul processo contro un gruppo di militanti cattolici antinuclearisti e Mr. Hoover and I (1989) in cui ripercorre le tappe della sua vita.

Gran parte di questi film sono basati sul collage di materiali preesistenti (de Antonio diceva di usare nelle proprie opere “elementi dei detriti culturali”, come Cage e Rauschenberg). Lavorando perlopiù con materiali d’archivio (provenienti da tv, film, ecc.) che venivano tagliati, rimontati e ricontestualizzati, de Antonio – come viene detto da Federico Rossin nell’introduzione a un volumetto uscito in occasione della retrospettiva (American collage. Il cinema di Emile de Antonio) – mirava a “decostruire ogni retorica politica e soprattutto ogni menzogna”. Su questo si potrebbe aprire un lungo dibattito ma mi limito a soffermarmi su un punto. Nei suoi documentari de Antonio ha sempre rifiutato la presenza di una voce narrante che spiegasse il senso delle immagini: “nel documentario convenzionale c’è sempre quella voce che spiega cosa c’è sullo schermo. Per me il commento è una forma di autoritarismo. C’è un atteggiamento di superiorità nel commento” diceva in un’intervista ai “Cahiers du cinèma” nel 1969. Si può comprendere il perché di questo rifiuto, ma è opportuno anche rilevare che, nella pratica, tale scelta è soggetta ad alcune contraddizioni. Anzitutto, pur non utilizzando una vera e propria voce narrante, questi documentari ricorrono talvolta a quelli che si potrebbero definire dei commentatori “vicari”. I giornalisti e i politologi che intervengono in Millhouse svolgono questa funzione: implicitamente presentati come “autorevoli”, impongono una lettura e un’interpretazione all’oggetto del documentario (rispetto al quale sono “esterni”), in modo non dissimile dai commentatori di un qualsiasi documentario “convenzionale” da cui de Antonio intendeva allontanarsi.

Ancora più ambiguo è quello che accade in Underground. Qui l’interesse documentario starebbe nel farci sentire le voci di un gruppo in clandestinità (perché ricercato dall’Fbi). Ma spesso a quelle voci vengono sovrapposte immagini della realtà americana che esse descrivono. In tal modo quelle voci non sono più oggetto del documentario, ma assumono – in modo non dichiarato – la posizione privilegiata di commentatori della realtà americana mostrata nelle immagini. Ad esempio, se alle parole di uno dei membri del collettivo sulla povertà di Portorico vengono associate le immagini della povertà di Portorico, quelle immagini finiranno per avallare i sillogismi di chi sta parlando (secondo cui quella povertà sarebbe spiegabile nel quadro della teoria dell’imperialismo e sarebbe destinata a sfociare nella rivoluzione). Non si tratta qui di criticare de Antonio per la sua vicinanza ideologica alle posizioni di quel collettivo radicale, ma di sottolineare che il suo cinema non è esente da quelle forme di “manipolazione” che mirava a “decostruire”.