Intervista a Matteo Franceschini

Il musicista trentino frai i grandi protagonisti del 54. Festival Internazionale di Musica di Venezia

Il 54. Festival Internazionale di musica contemporanea (23 settembre –2 ottobre) ha preso l’avvio nel Palazzo Pisoni, metaforicamente chiamato “Incantato” dalla fantasia del Direttore Artistico Luca Francesconi che ha immesso nel Don Giovanni a Venezia di Mozart implicanze filosofiche kirkagerdiane e cartesiane, intrecci della commedia dell’arte sino a Byron e Baudelaire e le tre monografiche del passione teatrale mozartiana.

Questa Manifestazione è stata caratterizzata, oltre che dalle novità musicali, dall’importanza della ricerca che ha incluso l’apporto delle varie scuole musicali e quello delle Belle Arti, in cui i giovani artisti, soprattutto, si sono confrontati in un “gioco” competitivo e creativo.
Ai capolavori musicali degli ultimi decenni si sono accostate le nuovissime ricerche che spaziano da Luigi Nono a Francesco Antonioni, allo svizzero Beat Furrer, al nigeriano Hauspeter Kybur, all’argentino David Lang, alla lettone Santa Ratniece, al tedesco Helmuth Lachenmann, e altri musicisti che abbracciano tutti i continenti.

Tra questi maestri di fama internazionale è risultata significativa la presenza di Matteo Franceschini, nativo di Aldeno, paese posto tra Trento e Rovereto. I suoi lavori sono stati eseguiti all’interno di vari festival tra i quali Settembre musica di Torino, Rondò di Milano, Sound Ways di San Pietroburgo, Festival de Radio France, e altri nell’Est Europeo.
Si presta con semplicità e cortesia a un breve colloquio, il 24 settembre, alcune ore prima del suo concerto tenuto al Teatro dell’Arsenale.

NSC: Le prime tappe della sua formazione iniziano nelle scuole di Trento o ha preferito ambienti propedeutici più qualificati?

M.F.: Proprio al conservatorio di Trento mi sono diplomato prima in clarinetto poi in composizione, dapprima sotto la guida di mio padre Armando, in seguito, trasferitomi al Conservatorio di Milano, con il maestro Alessadro Solbiati. Mi sono perfezionato all’Accademia Nazionale Santa Cecilia con il maestro Azio Gorghi. Ho preso casa a Parigi da cinque anni dove c’è un fermento musicale e centro di sperimentalismo internazionale. Mi sono amici e sodali maestri di fama tra cui Yan Maresz. Riguardo al mio curriculum parlano i premi ad ogni livello che mi hanno attribuito e non sta a me rilevarli in questa circostanza.

NSC: Anche lei entra nell’ottica della ricerca di questo festival portandovi il rapporto musica- teatro, attingendo dalla storia trentina materiali di un realismo popolare con il suo linguaggio e la sua psicologia.

M.F.: Sono molto attaccato alla mia terra. Nella mia arte tendo sempre a coinvolgerne la cultura più genuina, specie quella popolare sia nei contenuti che nel linguaggio. Con mio fratello Andrea abbiamo scelto nelle nostre indagini bibliografiche un mirabile testo di Aldo Bertoluzza Il Gridario che racconta sette proclami del proibizionismo trentino, filtrati attraverso la fantasia di un bambino che li interpreta in base alla sua esperienza e al suo modo di vedere il mondo . Proprio Il Gridario musicato da me verrà eseguito stasera all’Arsenale. I manifesti di questo testo espongono una serie di proibizioni che il Principe vescovo emanava. Si vive in esso la contrapposizione di due mondi: l’aristocratico e il popolano, con la sua spontaneità, quest’ultimo, e la sua genuina rozzezza.. Le due facce sociali sono commentate da gruppi di cantanti che io volli pure loro della mia terra trentina: quelli del Coro Croz Corona, diretto da Renzo Toniolli.

NSC: Quali filoni musicali hanno influenzato la sua ispirazione?

M.F.: Se mi chiedete i miei riferimenti e quale musica produco, rispondo che tutti gli artisti e pensatori siedono sulle spalle dei predecessori, come ebbe a dire magistralmente Bacone. La mia musica è quella che sento ispirarmi e che riempie la mia vita o meglio –parafrasando Munch – la musica è il sangue del proprio cuore.

NSC: Qualche sogno nel cassetto?

M.F.: Sto lavorando per un progetto musicale per soprano su testi di mio fratello Andrea. Anche questo lavoro è legato alla mia gente, soprattutto per l’uso scrupoloso e affettivo dell’idioma dialettale.