Opera prima del giovanissimo regista Abdullah Mohammed Saad, Live from Dacca è la seconda proiezione della sezione Open doors, inaugurata all’inizio del secolo con Locarno 54. Diciassette anni dopo questa ha visto conseguire dei buoni risultati per quanto riguarda l’appeal, sebbene sia doveroso sottolineare che molto del merito debba essere attribuito alla gratuità delle proiezioni, parallelamente alla loro qualità.

Saad è solo l’ennesimo dei talenti spuri ed emergenti che il festival ticinese si propone di lanciare, ma è evidente che credano molto in lui, tanto da voler essere a tutti i costi la sua prima tappa europea, immediatamente dopo il giro dei festival minori d’Asia. L’Europa, quella ridente e più prospera della Russia, è il sogno del protagonista Sazzad, desideroso di lasciare il Bangladesh dove, dopo aver perso tutti i soldi in un crac di borsa, non ha più una vita se non quella che consiste nell’alternanza tra la turbolenta relazione con Rehana e i tentativi di redimere il fratello Michael, tossicodipendente.

Film a budget praticamente inesistente, Live from Dhaka è uno spaccato naturale sulla vita delle fasce più deboli del paese d’origine del regista. Sazzad è una persona normale su cui ha infierito prima il caso (è zoppo a causa di una frattura al ginocchio mal trattata) e poi il sistema (tra strozzini, ricatti, e impraticabilità della burocrazia) della quale ci viene mostrata la vita nella sua routine. Una routine che si rivela ben presto infernale, suddivisa in tanti piccoli episodi di incontri/scontri con il fratello e la fidanzata, dai quali emerge l’imbruttimento umano reso possibile dalle condizioni di vita del Bangladesh: Sazzad si comporta in modo ipocrita con Michael, è attaccato al denaro in misura maggiore ogni giorno che passa, picchia e insulta Rehena e porta avanti il suo piano di riscatto sociale nel silenzio generale. Montaggio lineare e macchina a spalla sono le modalità che Saad sembra preferire, alternando quadri immobili e distanti, indietreggiando molto con la mdp senza mai però aprire il grandangolo per restituire un’immagine claustrofobica sia in questi casi, sia quando vira verso un’impostazione più neorealista, seguendo i personaggi da dietro nel loro inesauribile dinamismo: questi si muovono sempre come per tenere in vita la loro speranza, inseguendo una serie di obiettivi per avere un qualcosa verso cui tendere.

La tensione verso la fuga è proprio ciò che tiene in vita Sazzad, e fa da contraltare al ripetersi immutato della sua vita: gli episodi sono ciclici, brutali nella loro reiterazione, assimilando la vita del protagonista (e dei tanti altri a cui nei pensieri del regista egli fa da metonimia) a una catena di montaggio più che a una vita: litiga con Rehena, scontrati con tuo fratello illudendoti di redimerlo, paga lo strozzino, guarda quello spiraglio sulla redenzione, fallisci, ripeti daccapo. In questo contesto Sazzad, cioè l’unica variabile rimasta, non può che scivolare lentamente nell’abisso, al punto da non concepirsi più come un essere umano, facendo all in sul progetto di fuga, o Russia o morte; senza più remore nei confronti delle altre persone, arriva anche un momento in cui tenterà di frodare tutti quelli che conosce. Costretto ai compromessi, sostituendo la Russia con la più vicina ed economica Malesia e mentendo spudoratamente al fine di suscitare pietà, si manifesta come il risultato umano della spietatezza fattasi cifra della vita nel paese d’origine, lo stesso del regista, che, da bravo emulatore della scuola neorealista italiana – alcuni rimandi sono palesi, assieme a quelli al cinema di Mizoguchi – si pone come un osservatore della realtà, esprimendo una denuncia silenziosa ma carica.

Live from Dhaka non è in sé una sfavillante novità o un film dirompente nella sua messa in scena, ma è più equilibrato di molte altre opere prime e, analogamente a film come Wajib, con cui condivide poco o nulla, meno una cosa, acquisisce una sua autonomia, un suo senso, nell’andare a rappresentare il volto di un paese le cui dinamiche restano sconosciute ai più come esso è in realtà.

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