Scompare Antonio Tarantino, un grande drammaturgo

Antonio Tarantino era un fuoriclasse, e la sua scomparsa rattrista profondamente il mondo teatrale, italiano e non solo.

La sua storia come drammaturgo nasce tardi, quando ha già sorpassato la cinquantina, e i suoi inizi hanno caratteristiche anche un po’ rocambolesche: tutto comincia nel 1993 con un dattiloscritto in copia unica, che l’autore consegna di persona da Torino, dove risiede fin da piccolo, alla sede milanese della Ubulibri, la casa editrice fondata e diretta da Franco Quadri. Il caso vuole che il critico faccia anche parte della giuria del Premio Riccione per il Teatro – ne diventerà poco dopo presidente –, antica e gloriosa fucina di nuovi scrittori per la scena. Una giuria che tra i suoi membri vede quell’anno personalità quali, tra le altre, Luca Ronconi, Enzo Moscato, Maria Grazia Gregori, Marisa Fabbri ed Ettore Capriolo. Il fatto che dall’affollata scrivania di Quadri il testo riesca a raggiungere Riccione indurrebbe a parlare di predestinazione: la cosa innegabile è che Stabat Mater, la pièce in questione, ottiene – insieme alla secondogenita, Passione secondo Giovanni – il primo premio all’unanimità. Riccione Teatro dunque rappresenta l’atto fondativo dell’attività teatrale di Tarantino, che si dimostrerà negli anni successivi prolifica e variegata. Ancora alla Ubulibri si deve nel ’97 la prima raccolta (ne seguiranno altre tre, arrivando fino al 2009), Quattro atti profani, a cura di Elena De Angeli, dove ai due già menzionati si aggiungono anche lo straordinario Vespro della beata Vergini e Lustrini, che chiude quella che è stata definita una «tetralogia delle cure».

Fatto inedito nella storia del Premio romagnolo, nello stesso 1997 viene conferito per la seconda volta il riconoscimento alla quinta opera, Materiali per una tragedia tedesca, un vero e proprio kolossal che rivoluziona per tematiche e dimensioni quanto è stato da lui scritto in precedenza.

Da qui in poi il flusso drammaturgico sarà costante, offrendo moltissime altre perle, tra cui si cita almeno lo splendido, rarefatto monologo Cara Medea, letto straordinariamente per la prima volta nel 2008 da Maria Paiato, durante un incontro dedicato a Tarantino tenutosi, alla presenza di Franco Quadri, all’Auditorium dell’Ateneo veneziano di Ca’ Foscari nell’ambito del progetto «Parole in forma (scenica)» della Fondazione di Venezia (e realizzato in collaborazione con la stessa università).

Al di là di dati e date, il ‘caso’ Tarantino ha destato l’interesse dei più svariati artisti del teatro nazionale (senza dimenticare le molte traduzioni e messinscene, soprattutto in Francia, Spagna, Portogallo e Brasile), da Giorgio Albertazzi a Marco Martinelli, da Piera Degli Esposti a Valter Malosti (sua una splendida, recente ‘condensazione’ dei primi quattro testi, ancora con la Paiato in scena), da Lino Banfi ai torinesi Marcido Marcidorjs, oltre al notevole lavoro del regista tunisino Chérif, che per primo legge uno a uno gli Atti profani e porta al Piccolo Teatro il complesso pastiche dei Materiali. L’eterogeneità degli approcci testimonia dunque l’interesse generalizzato che le scene italiane rivolgono a questa particolare scrittura. E proprio all’interno di questa scrittura si ritrovano gli elementi che rendono l’autore torinese d’adozione un caso unico e irripetibile.

Come sempre, quando un nuovo autore comincia a essere conosciuto, naturalmente si impongono confronti e paragoni con figure ‘storiche’ o addirittura già divenute dei ‘classici’: nel caso di Tarantino, in particolare per il primo nucleo di opere, che si concentra su metafore bibliche ed evangeliche, ‘trasportate’ in modo straniante e originale in contesti marginali e patologici, è stato fatto il nome di Giovanni Testori, gigante della drammaturgia italiana novecentesca. Allo stesso modo, per l’attenzione agli ultimi e ai diseredati, sono stati chiamati più o meno a proposito in causa altri mostri sacri come Pier Paolo Pasolini o Carlo Emilio Gadda. Alla fine, con il consolidarsi della produzione tarantiniana, questi riferimenti hanno perso vigore, sconfessati e in certo modo rifiutati dallo stesso protagonista. Più puntuale la lettura che emerge dalla critica più accorta e vicina alle specificità di questo autore eccentrico, Franco Quadri in testa, secondo la quale i filoni in cui si può suddividere la drammaturgia di Tarantino sono sostanzialmente due, uno rivolto al mito, l’altro alla storia. Del primo sono evidenti testimoni i già più volte citati Atti profani, che rappresentano riletture appunto ‘profane’, ma enormemente calzanti nella loro pietas intrinseca, di episodi e personaggi tratti dal Nuovo Testamento, come Maria, che veste i panni della straccivendola Maria-Meri-Marì, o lo schizofrenico sdoppiamento di Io-Lui, sorta di povero Cristo ricoverato nei burocratici reparti della psichiatria bresciana. Mito come storia emblematica, dunque considerando la parola in termini etimologici, è anche quello del lapidario, spassoso e atroce Cara Medea, una storia di sopruso e deportazione che condanna lo spettatore alla risata (ma la madre assassina ritorna più volte nelle rielaborazioni di Tarantino) o della tenera quanto tremenda Piccola Antigone, ancora inedita, o ancora i morti che parlano nell’agghiacciante Stranieri che ha affascinato il Teatro delle Albe. La forte volontà allusiva di questi testi rievoca miti dell’antichità e di oggi, riprendendone e amplificandone il sapore ancestrale e la portata archetipica, in quell’operazione di ‘umanizzazione’ delle figure che è propria di tutto il teatro di Tarantino. Anche la storia, più che la Storia, irrompe però con prepotenza nel magma teatrale, a cominciare dai ponderosi Materiali per una tragedia tedesca, che sin dal titolo tradisce – a proposito di storia – una fascinazione mülleriana, confermata dal depositarsi continuo e spiazzante, come fossero detriti, dei frammenti di cui si compone. La lente di ingrandimento, spesso sarcastica e irrisoria, non deve far pensare a una superficialità della documentazione, che è anzi rigorosissima anche se buona parte delle volte attinta da fonti non ufficiali, quasi controcanti alla storia registrata e per sempre fissata nei libri. Oltre alla tumultuosa Germania degli anni Settanta, ritratta parodicamente nei Materiali, anche il conflitto mediorientale entra a far parte del repertorio tarantiniano in modo non episodico: se infatti nella Casa di Ramallah una famiglia di palestinesi indigenti ritiene plausibile che la figlia possa farsi esplodere in una piazza israeliana (la casa è la ricompensa del suo suicidio e della strage), nella Pace le caricature cialtronesche di Sharon e Arafat, rispettivamente leader israeliano e palestinese di qualche tempo fa, sono messe alla gogna tra deserti invalicabili e temibilissimi orsi tunisini che attentano alla virtù di entrambi. Al drammatico destino della banda terroristica Baader-Meinhof, gruppo di anarchici ‘suicidati’ in cella tutti nello stesso momento dall’autorità tedesca, che già fa capolino all’interno dei Materiali, è riservata una tragicomica pièce come Conversazioni. Alla politica italiana infine si rifanno il forse troppo lungo Trattato di pace, dove comunque un Alcide De Gasperi piuttosto male in arnese e assai esilarante deve salvare l’Italia nell’immediato dopoguerra e si invaghisce di un’inquietante quanto conturbante nobildonna, e uno dei testi più belli dell’ultimo periodo, Gramsci a Turi, che offre un malinconico, poetico ritratto dell’intellettuale sardo.

Se questi, in estrema sintesi, sono i filoni e i temi affrontati dal non piccolo corpus di opere, molte delle quali dovrebbero essere recuperate e pubblicate al più presto, vale la pena spendere qualche parola sulla scrittura in sé, che forse è l’elemento più caratteristico e nel quale Tarantino esprime al massimo la sua originalità. Ci troviamo all’interno di un impasto (assai diverso però dalla colta lingua teatrale di Testori) nel quale confluiscono brutale e sublime, alto e basso, parole di evidente derivazione letteraria e altre raccolte e fatte proprie dalla strada. Un impasto che prende in considerazione molti diversi stili espressivi, mettendo insieme teatro ‘serio’ e avanspettacolo, comicità sardonica e tratti da varietà, riflessioni e spunti ‘shakespeariani’ e spassosi ammiccamenti alla contemporaneità. Si potrebbe parlare, per ogni testo di Tarantino, di ‘matericità’ della lingua, quella ‘matericità’ che dopo molti anni non riusciva più a trovare nei quadri che dipingeva in passato e che aveva invece riscoperto proprio nell’ingranaggio teatrale. È in questo senso che si può considerare un maestro e un innovatore, destinato a restare isolato nel panorama drammaturgico generale.

Oltre alla grandezza dell’arte di Antonio (che nel 2017 riceve il Premio Ubu alla carriera), va messa in risalto, in chiusura, anche la grande umanità che lo contraddistingueva, e che puntualmente travasava in ciascuno dei suoi personaggi: un’umanità che esprimeva nelle molte dimostrazioni di amicizia, nella generosità con cui condivideva con i giovani e gli studenti il suo approccio alla scrittura e alla vita (per molti anni la sua lezione-conversazione allo Stars della Cattolica di Brescia è stato un appuntamento fisso), il suo amore per la bellezza (soprattutto femminile) e – last but not least – per il buon vino e per il convivio…