Marco Travaglio a teatro: come svegliarsi da un’Anestesia Totale

Il giornalismo che riempie le platee e dà (buono) spettacolo di sé

Dal punto di vista professionale, in veste di giornalista, ho sempre considerato Marco Travaglio un esempio e un modello da seguire. La sua padronanza della lingua italiana, la sua scrupolosa accuratezza nella ricerca dei dati, la sua precisione nell’esposizione degli avvenimenti, sono doti innegabili. Può risultare più o meno simpatico, può piacere o no la sua ironia di sorta, ma ciò che dice è, sempre, indiscutibilmente, un fatto.

Da spettatrice di teatro, però, non potevo non nutrire qualche dubbio circa la sua presenza sul palcoscenico: senza telecamere che ne stimolassero il lato vanesio, e con l’onere di riempire una ragguardevole fetta di tempo ben diversa dai quindici minuti che bastano in televisione. I mancati pregiudizi verso il giornalista, spuntavano fuori verso l’autore e l’interprete di quella che deve essere, giocoforza, una performance teatrale: sarebbero state due ore di proclami e propaganda politica, o uno “spettacolo” vero e proprio? Senza dubbio, col senno del poi, la bilancia pende dal lato della seconda ipotesi. Almeno per quanto concerne il lavoro attualmente in tournèe, Anestesia Totale .

Scritta e “interpretata” da Travaglio stesso, la rappresentazione non è affatto una versione da palcoscenico dello Speakers’ corner di Hyde Park.
-La scenografia prevede un’edicola, al centro del palco, una panca sulla sinistra e un leggio a destra. Intorno alle gambe di entrambi, dei libri. Travaglio è un po’ come un “professore casual”: entra in scena, jeans e camicia, ed è pronto più che a indottrinarci con degli insegnamenti, a trasmetterci ciò che ha capito. Spetta a Isabella Ferrari, voce-spalla, leggere di volta in volta, staccando i giornali dal finto negozio, i titoli della lezione che si va ad affrontare.
-E così si parla della scomparsa dei fatti, del metro (di misura), della verità, delle parole, della logica: lo scenario politico italiano raccontato dalle esatte frasi dei suoi protagonisti che, messe lì, tutte insieme, e sentite cozzare l’una con l’altra, restituiscono l’immagine desolante che già conosciamo.

La regia di Stefania De Santis fa alternare ai monologhi del carismatico giornalista, dei duetti con la Ferrari, dei momenti di lei da sola, e dei “siparietti” musicali. L’edicolante (Valentino Corvino) è completamente muto, ma si improvvisa ora dj, ora violinista, creando “l’atmosfera” alla lettura dei titoli del Tg1 o alle liriche di Bondi.
-Protagoniste assolute, le parole di Indro Montanelli. Declamate dal leggio, ascoltate da registrazioni live, sono state pronunciate a partire dal 1994 fino al 2001, eppure suonano così autentiche, attuali, tristemente vere. Sono la prova tangibile che un giornalismo di destra può e deve esistere, senza per questo cessare d’essere obiettivo nei confronti della propria parte politica.

Scorrono così ben tre ore (unico appunto: una pausa in mezzo ci poteva stare) passate a fare i conti con la nostra storia più recente, a chiederci come abbiamo fatto a restare inermi e sì, anche a ridere, di gusto, degli aspetti più ridicoli della questione.
-Travaglio non è un attore in senso stretto e ne è consapevole. Alla larga dunque i puristi che vogliano trovare come difetto la non “attorialità” dell’ideatore. Ma Anestesia Totale, è teatro. Nella sua funzione primordiale e semplice: quella di raccontare una fetta di storia di un popolo, in questo caso quello italiano, dalla viva voce di chi ne conosca ogni dettaglio.
Gli organizzatori dei cartelloni amano definirlo “civile” per trovargli una qualifica che lo differenzi da quello “comico” o “di prosa”. Sembra così strano che, così come accade in tv, ci siano degli spettacoli concepiti apposta per indurre alla riflessione e non al semplice intrattenimento, che si sente il bisogno di collocarli, di farne capire immediatamente gli scopi.
Per chi in questo momento sta scrivendo, è solo puro e semplice teatro, e Travaglio e simili possono contemporaneamente risvegliarci da una doppia “anestesia totale”: quella della politica, e quella della convinzione secondo la quale, per la maggior parte degli spettatori paganti, gli unici spettacoli per i quali valga la pena sborsare il prezzo del biglietto siano i nomi di richiamo da cabaret.

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