Sanremo 2009 – Terza Serata

Fuori orario

Questa volta è proprio il caso di dirlo: la terza serata di Sanremo 2009 è davvero all’insegna della musica. Sarà perché le nuove proposte quest’anno sono davvero di livello nettamente superiore ai big, sarà per gli ospiti che hanno accompagnato le esibizioni dei giovani in gara, sarà perché, per una volta, la direzione di Bonolis ha saputo limitare inutili siparietti e perdite di tempo per lasciare tutto lo spazio possibile alle canzoni: il risultato è stata una serata dalla durata biblica, quello sì, ma almeno di ottimo livello artistico.

I quarant’anni passati da Mosè e dal popolo ebraico nel deserto del Sinai sono nulla in confronto ai millenni che il povero telespettatore comune attraversa nell’attesa che ogni singolo elemento che attraversa il palco dell’Ariston abbia avuto il tempo minimo che gli spetta. Come sempre, non si riesce a condensare, sintetizzare, tagliare (26 cantanti in gara tra big e giovani sono un esercito da epopea medievale), ma le ottime performance attenuano quantomeno la lunga, infinita notte del sanremofilo più irriducibile.

Anche il grande ospite della serata, il pluripremiato attore Kevin Spacey, fa la sua entrata intonando con perizia Fly me to the moon di Sinatra, Laurenti fa la sua parte con My Way e Bonolis canta Imagine: per una volta, anche gli intervalli sono all’insegna della musica. Bisogna ammettere, però, che le lunghe e notevoli esibizioni dei “grandi maestri” hanno spesso messo in secondo piano i giovani che dovevano rappresentare, invertendo l’intento iniziale e giungendo al paradosso che la musica più apprezzata è stata quella che non era in gara – insomma, ancora una celebrazione del passato a scapito della contemporaneità.

Dopo l’apertura sulle note di Giovanni Allevi e le immagini de La leggenda del pianista sull’oceano, dà il via all’interminabile nottata Filppo Perbellini, stavolta con Cocciante in carne d’ossa, se non altro per dimostrarci che a scapito delle apparenze sono in effetti due esseri viventi distinti, anche se le grandi potenzialità della tecnologia moderna ci fanno tuttora dubitare, nonostante le prove. L’accoppiata è, naturalmente, azzecatissima: chi direbbe, in fondo, che la voce e la presenza di Cocciante non si sposano bene con Cocciante – in un sol colpo, la schizofrenia viene scongiurata e potenziata. Il crinito veterano, poi, si sbizzarisce nell’esecuzione di Quando finisce un amore, sentita ma fin troppo eccessiva. La cespugliosa acconciatura della bellissima – e molto brava e spigliata – attrice Gabriella Pession, poi, ci conferma che la Cocciantite, termine scientifico con cui si designa la sindrome della permanente acuta, ha ormai invaso l’Italia occidentale e potrebbe presto assumere la portata tragica di una nuova epidemia su scala mondiale. E se la brava Silvia Aprile non propone nulla di nuovo (se tutte le canzoni sulle donne venissero suonate una dopo l’altra, l’arrivo di Mosè nella terra promessa dopo i pur lunghi quarant’anni sarbbe solo la fine della prima delle quaranta compilation), l’autore della sua canzone e mentore, Pino Daniele, incanta letteralmente le orecchie e il cuore con Quando e Napule è. La sua voce rapisce l’anima, la trasporta con immensa emozione in quell’altrove dove esiste la vera musica, quella che è anche arte, luogo ahimé spesso lontano dal palco della cittadina ligure.

Voce molto bella quella di Karima, accompagnata da un ottimo vocalist jazz qual è Mario Biondi e da un maestro indiscusso della musica leggera, Burt Bacharach: tutto ineccepibile, anche se la spiccata somiglianza con Giorgia fa sospettare che altre incontenibili epidemie dilaghino sul territorio nazionale – da notare infatti che il direttore dell’orchestra Michael Baker collabora con la famosa vocalist. Dopo che Bacharach e l’orchestra hanno eseguito con delicatezza un medley di alcuni dei più celebri brani del compositore, il palco viene travolto dalla scanzonata senilità di Zucchero, Dodi Battaglia, Maurizio Vandelli e Fio Zanotti che accompagnano Irene, figlia del primo: il loro apporto al brano è poco più che di contorno, ma poi il quintetto si lascia andare ad un altro medley, questa volta all’insegna del rock, con brani loro e non solo. Commenta Bonolis “Ah, questo è quello che succedeva negli anni ’70”, come se le jam session fossero ora bandite dalla legge o non avessero più luogo, quasi fossero un evento più remoto di una parata hippy. L’Ariston si dimena nell’euforia come in un tumulto bacchico, segno visibile dell’età media del pubblico: un po’ è sollevante, un po’ spaventa quasi si vedesse la nonna ottantenne in preda alle convulsioni.

Chiara Canzian esegue la sua Prova a dire il mio nome con troppa voglia di mostrare le sue potenzialità, fino all’ultrasuono indesiderato alterando il bel brano scritto per lei da Sangiorgi dei Negramaro; cercando di riportare la follia ugulare all’understatement, il suo mentore, Vecchioni, restituisce tutta la linearità necessaria alla canzone e regala al pubblico la sua Sogna, ragazzo, sogna, con la grande consapevolezza e serenità che da sempre caratterizzano il suo stile.

Segue Iskra con il suo suggestivo brano, cantato con il compagno di lavoro Dalla, che poi regala al pubblico dell’Ariston un’inedita lezione di musica, guidando abbonati in prima fila, orchestrali e dirigenti rai (Del Noce è come sempre il il vertice massimo sia dell’azienda sia della miseria dell’animo) in una labirintica serie di vocalizzi. Intanto Mosè vaga tra una duna e una roccia, mentre il cammello e il popolo intero lo seguono sconsolato, intravedendo inesistenti oasi in quella che si rivela essere solo un’interruzione pubblicitaria: un falso allarme, niente più. Poi è la volta della brava Simona Molinari, affiancata dalla sempre più sorprendente Ornella Vanoni, straordinaria jazzista: il loro duetto sembra un po’ disorganizzato, ma i tributi a Tenco e Mino Reitano della Vanoni fanno davvero venire la pelle d’oca. Poi tocca ad Arisa, tuttora incerta fra l’immagine di ET, una Audrey Hepburn moderna o un cartone animato giapponese: accompagnata al piano dal simpatico e monumentale maestro Lelio Luttazzi, avrebbe potuto osare di più con il suo brano fresco e piacevole; un personaggio così, però, non passerà certo inosservato. E mentre Mosè comincia ad avere i primi miraggi nella visione di timorosi folletti – ignaro che il miraggio consiste invece nella reale Arisa – il silenzio del deserto viene rotto dalla voce di Barbara Gilbo: un grido in meno non avrebbe nuociuto, e avrebbe evitato che il povero Massimo Ranieri perdesse tutta la chioma in un sol colpo, piuttosto che l’amore – ma l’emozione arriva.

Mosè avvista Gino Paoli: sembravano quarant’anni che vaghiamo nel Sinai, si dice, ma forse non è passato nemmeno un minuto…sentendo però che l’anziano cantante riesce ancora a parlare al cuore, e che la sua protetta Malika Ayane vale la pena di qualche altro giorno di cammino, l’ormai anziano Mosè si consola – anche se il duo è maleassortito, con la voce potente dell’Ayane che inghiotte i sussurri di Paoli come la balena fa con l’aringa.

Poi, quando la terra promessa sembra apparire all’orizzonte, è lì che Mosè ha il miraggio più eclatante: dietro la visione di una palma si nascondono le esibizioni dei sei big esclusi nelle prime due serate, per pemetterne di salvarne due e farli arrivare alla serata finale: ma alla salvezza del povero telespettatore, chi pensa? E se pur due degli esclusi arriveranno in finale, nell’agognato istante la platea da casa sarà interamente nel reparto di rianimazione: la privazione del sonno è ufficialmente riconosciuta come forma di tortura – e forse la durata di Sanremo lede qualche diritto umano. Mosè comincia a disperare. Sentite le sei canzoni, sentiti sessantasei volte i due numeri di telefono per salvare i sei cantanti, dopo quelli che a noi sembrano sessantasei anni (di buona musica, per carità, ma sessantasei anni) a quelle che ci sembrano le sei e sessantasei del mattino, ma sono “solo” l’una e mezza, si giunge all’ovvio verdetto. Vengono ripescati Albano e Sal da Vinci, affetto dall’altra grave sindrome che attanaglia il belpaese, l’incurabile dalessite – indovinare chi ha scritto il brano è come indovinare la propria data di nascita: Mosè, pur estenuato, trova la forza per gridare all’ingiustizia e poi accasciarsi, stremato, finalmente giunto nella terra promessa. In fondo era naturale che ogni minimo accenno di novità non fosse gradito ai gusti prerinascimentali del pubblico del festival, che ancora non è stato informato dell’invenzione della ruota e che non ha forse mai comprato un cd in vita sua. Vengono definitivamente eliminati, perciò, Tricarico, gli Afterhours, Iva Zanicchi e Nicky Nicolai-Stefano Di Battista.

Suona il Te Deum , sigla dell’Eurovisione che chiude la terza puntata; un peccato che l’eccesso della quantita di buona musica, tale da rendere la durata della serata pressoché infinita, renda le note della sigla particolarmente gradite alle nostre orecchie. Il primo vincitore di quest’anno, comunque, è la cantante Ania per la categoria Sanremo Web: eseguirà il suo pezzo sabato sera. La quarta serata, invece, decreterà il vincitore fra le Proposte 2009 e vedrà i big riproporre i loro brani in una versione liberamente rivisitata; ma non ditelo a Mosè – l’idea di passare altri quarant’anni a vagare nel deserto potrebbero essergli fatali.