“INTERVISTA” A Lorenzo Tomasin

Poliedrici aspetti della lingua veneta

La linguistica veneta, la ricerca scientifica e il mondo del giornalismo a confronto con quello letterario nell’intervista a Lorenzo Tomasin, ben noto studioso e giornalista .

Innanzitutto, guardando il Suo curriculum, emerge un dato moto interessante: Lei si è occupato di antroponimia veneziana, onomastica piscatoria, volgare e legge, tutti argomenti molto particolari. Da dove nasce questo interesse?
In generale nasce da tante piccole casualità, da tante piccole coincidenze. Mi è capitato di sentirmi rivolgere una domanda simile quando, in una commissione scientifica, mi chiesero come mi era nata l’idea del volume Il volgare e la legge, del 2001. In questo caso c’era alla base un corso universitario in cui si era parlato del volgare nelle cancellerie italiane, l’argomento mi era interessato e avevo iniziato ad indagare la situazione della cancelleria della mia città, cioè Venezia, e poi ho cominciato ad estendere il mio interesse più avanti e più indietro nel tempo. In altri casi sono singole letture che sono un spunto per un approfondimento che inizialmente è solo una scorribanda in biblioteca e poi si trasforma in qualcos’altro. Quando ci si imbarca in una avventura di ricerca, in un’avventura scientifica, raramente succede di sapere, fin dall’inizio, dove si andrà a parare e ci si ritrova ad un punto diverso rispetto a quello stabilito. Fa parte della consuetudine della ricerca .

E attualmente, per quanto riguarda i campi d’indagine della linguistica e della letteratura veneta, c’è qualche settore che è oggetto di maggiori attenzioni?
Direi che non c’è un settore in particolare. Questo genere di studi è condizionato da due fattori: il primo è la presenza dei migliori studiosi sul campo che con i loro personali interessi, la loro personale sensibilità condizionano il panorama generale e la ricerca degli altri. Per esempio adesso a Venezia c’è un gruppo molto attivo e molto vivace che si occupa della stagione Sette – Ottocentesca. E poi ci sono anche qui circostanze casuali che sono date dalla nascita di un’edizione nazionale, come quella di Goldoni, che favorisce studi indirizzati verso questi campi. Oppure il ricorrere di un centenario, come quello gozziano e goldoniano. Sono casualità imposte dal calendario che spingono verso determinati autori o argomenti. Mi piace credere che, più che queste casualità esterne, il vero motore sia l’ingegno, la fantasia e il personale contributo dato dai più ingegnosi che riescono a condizionare anche il lavoro degli altri.

In questi campi molto spesso l’idea generale è che gli studi siano molto stagnanti, che ci siamo secoli più o meno avvolti nella nebbia, come il primo medioevo, e altri molto studiati. È vero o è solo una percezione comune?Certamente è vero che c’è un forte sbilanciamento verso gli studi contemporanei, anche nell’italianistica in generale, e una perdita di interesse nei confronti dei secoli passati, come il medioevo. Questo, secondo me, dipende da due fattori: uno, più generale e più blando, è che la ricerca, negli assetti che l’università ha assunto negli ultimi anni, è fortemente penalizzata. Poiché le politiche universitarie sono state governate e sono governate tutt’oggi dal principio che, prima di tutto, l’università deve sfornare laureati, la didattica è messa al primo posto e la ricerca indebolita. Questo è il primo fatto che non basta, però, a spiegare l’orientamento di studi verso la contemporaneistica. Il secondo motivo è che ci sono parti della storiografia letteraria e linguistica che richiedono oggettivamente un maggior impegno di ricerca, più duro e meno appagante nell’immediato, come per esempio le ricerche d’archivio, le lunghe battute di caccia in territori in cui sono richieste competenze tecniche specifiche, da quelle grammaticali a quelle filologiche e paleografiche. Sono settori che, in un momento di affaticamento della ricerca, vengono indeboliti perché è più semplice lavorare in altri campi, meno impegnativi.

Tra le sue varie collaborazioni c’è anche quella per il progetto di «Un vocabolario dei dialetti veneti», si tratta di un’iniziativa che di cui non se ne è parlato molto, ma fondamentale per gli studiosi di letteratura e dialettologia veneta.
Si tratta di un progetto di ricerca PRIN(progetto a rilevanza di interesse nazionale) finanziato dal ministero e da alcune università venete più la Normale e quella di Udine. A lungo termine il progetto dovrebbe condurre a realizzare un vocabolario, in senso classico, dei dialetti veneti, un vocabolario storico. Ma nell’immediato ci sono e si stanno preparando materiali che serviranno al vocabolario. Si tratta di edizioni di testi antichi, di autori canonici da utilizzare per il vocabolario, dello studio e approfondimento su singoli personaggi e singole questioni linguistiche. C’è poi un’iniziativa, che non è esattamente parte del progetto, ma è collegata ad esso, e che è in fase di conclusione: il vocabolario del pavano che si sta realizzando a Padova. Questo è un punto d’arrivo e di partenza importantissimo per la ricerca.

Questo tipo di ricerche sono finanziati di più dai privati, dallo stato o da enti?
Onestamente sarebbe bello se la ricerca, come mi è capitato di osservare in altre situazioni, fosse sostenuta da privati. Riconosco che in Italia i contributi maggiori, in questo settore, sono statali. I privati ci sono, ma non sono la voce maggiore.

Un altro aspetto particolare del Suo curriculum è la lunga pratica giornalistica, un letterato prestato al giornalismo.
Sì, è un secondo mestiere a cui tengo molto perché l’ho iniziato presto, è una passione giovanile che ho coltivato per anni. Anche quando mi sono convinto che la mia attività principale sarebbe stata quella dello studioso, non l’ho voluto abbandonare: credo che sia importante non chiudermi in un solo ambito, quello degli studi, che rischia di tenerti troppo lontano dalla realtà, e continuare a mantenere queste incursioni in una realtà più magmatica, più vicina alla quotidianità e all’efficacia della comunicazione data dal giornalismo.

Su il supplemento del «Sole 24 ore», Lei scrive di classici, da che punto si potrebbe partire per rileggere questi testi che non si trovano mai nelle classifiche di vendita schiacciati da una letteratura di consumo, come quella di Moccia o di Melissa P., che è destinata a consumarsi in poco tempo?
Le dò una risposta che forse non è quella che ci si attende. Io non credo che i classici debbano essere alternativi a Moccia o Melissa P. e credo che sia naturale e ovvio che Moccia e Melissa P. vendano più dell’Emilio di Rousseau o della Rime di Dante. Questo non significa che le Rime di Dante vengano abbandonate per leggere solo Melissa P. Un pubblico che leggesse solo Moccia, sarebbe culturalmente povero, ma un pubblico che leggesse solo Dante sarebbe disancorato dalla realtà o dall’attualità. L’importante è che queste due facce delle lettura continuino a convivere, la preoccupazione più forte è che chi si occupa di diffondere e di parlare al grande pubblico della lettura, tenda sempre di più a privilegiare il mero prodotto commerciale che in sé ha una sua dignità, ma che non esaurisce, o non dovrebbe esaurire, il panorama di un giornalismo culturale. In questo senso il domenicale del «Sole 24 Ore» mi sembra che rappresenti un po’ un’oasi in cui si può parlare di determinati argomenti, si può parlarne con una certa gravitas che non impedisce che, nelle stesse pagine, si possa trattare anche di cose più frivole. La letteratura di consumo è sempre esistita, oggi studiamo quella del Settecento come un fenomeno culturale, ma, in realtà, all’epoca non era così diversa da quella di oggi.

Anche a livello teatrale si ha una produzione di consumo, come quella dei comici, per esempio.
Senz’altro sì. Non vorrei avventurarmi in un territorio non mio, ma c’è sempre stata una produzione di consumo anche nel campo dello spettacolo a cui, per definizione, ha partecipato il grosso del pubblico. Questo non ha impedito in passato e non impedisce oggi che ci sia anche qualcos’altro che coinvolge un pubblico numericamente inferiore, ma che riesce ad attraversarlo tutto. Tornando alla letture, è accettabile l’idea che non tutti i classici siano per tutti, ma che almeno ci sia un classico per ciascuno.

La nostra rivista si occupa di proporre qualche classico con una lettura che esca fuori dai soliti schemi che si trovano a livello manualistico. Dal punto di vista di letterato e giornalista, questa è una valida idea per riproporre i classici?
Assolutamente sì. Un classico può essere stroncato, lodato o distrutto da un critico, se il critico si pone in una prospettiva diversa da quella consueta della manualistica. Un classico è un classico e come tale rimane nei manuali, ma nessuno ci impedisce di prenderci la libertà di dire che alcuni testi, fermo restando la loro natura di opere del canone, ai nostri occhi possono sembrare del tutto incomprensibili o inadatte. Ci sono opere che, pur appartenendo al canone, sono state conservate sotto formalina, come delle mummie, ma proprio questi testi, potrebbero assumere ai nostri occhi una ricchezza nuova. È un modo per trattare la letteratura con maggior ricchezza e minor rigidità.

Forse anche senza quella paura che un classico incute, soprattutto nei giovani.
Un giornale, come luogo di critica extra accademica, può permettersi operazioni di questo genere. In questo modo risulta più interessante per chi lo fa, e divertente e stimolante per chi lo legge.

Per concludere, un suggerimento di lettura?
Mi viene in mente un testo che, purtroppo, non è più in commercio. Sono le prose di Carducci, su cui sto lavorando. Dopo averlo “imposto” a lungo, la scuola italiana ha insegnato, per alcuni decenni, ad odiare Carducci, o addirittura a rimuoverlo dal canone. Sicuramente è stato un grande come poeta, ma trovo che il Carducci prosatore sia affascinante e divertente, un toscanaccio spassosissimo. L’anno prossimo dovrebbe uscire un’antologia che permetterà di riscoprirlo da questo punto di vista.

Lorenzo Tomasin, veneziano, classe 1975, è ricercatore in Storia della lingua italiana alla Scuola Normale Superiore di Pisa; ha recentemente vinto un concorso da professore associato. Giornalista pubblicista dal 1994, è editorialista della pagine venete del “Corriere della Sera” e titolare di una rubrica dedicata ai classici della letteratura sul Domenicale del “Sole-24ore”.