Esiste una terra di mezzo fra le due Koree in guerra che possa porre fine al massacro fratricida tra Nord e Sud? Può esservi reale pace in mezzo alle bombe americane? Qual è il prezzo da pagare per questa riconciliazione? “Welcome to Dongmakgol” è un film che ha l’ambizione di dare risposta a queste domande… in salsa spettacolare.
Tre soldati nordcoreani scampati ad una sanguinosa imboscata, due sudcoreani, uno disertore, l’altro medico, e un aviatore americano in una zona inesplorata al confine: i sei militari si ritrovano ospiti del villaggio di Dongmakgol, i cui abitanti non conoscono le armi da fuoco e ridono della violenza, isola felice dove la guerra non ha ancora fatto capolino. Dopo i primi attimi di tensione e stallo fra gli opposti schieramenti, beatamente ignorati dagli abitanti del villaggio, le divise di diverso colore e le armi fanno spazio ai vestiti semplici ed alla collaborazione nel duro lavoro dei campi: le divisioni scompaiono, i contrasti si appianano in quel clima di pace ed armonia in cui si immergono i soldati, tanto che nessuno di loro ha più intenzione di tornare nel mondo “civile”, fatto di morte e distruzione. La vita scorre lenta e pacifica finché un messaggio di soccorso del soldato americano non giunge al campo-base: parte una spedizione verso il villaggio, la guerra rischia di invadere e distruggere quell’incontaminato eden e risvegliare l’odio tra i figli dello stesso paese. Solamente il sacrificio dei militari potrà preservare Dongmakgol in quello stato di grazia, al riparo dai bombardieri americani.
La pellicola ha avuto straordinario successo sia in patria che al festival di Udine, tanto da aggiudicarsi il primo premio nei giudizi del pubblico: la trama è semplice e lineare ma non originalissima (a tratti ricorda Mediterraneo, qualcuno addirittura ha scomodato quella perla de La Sottile Linea Rossa), il cui valore aggiunto è una regia diligente e piuttosto attenta ad alternare i momenti bucolici a spettacolari scene di combattimento, supportate da un sapiente e discreto uso della Computer Graphic; se uniamo a questi elementi una fotografia e un montaggio di livello hollywoodiano il favore del grande pubblico è assicurato. Andando invece a scavare nel profondo concettuale rimaniamo spiazzati davanti ad un messaggio letteralmente schizofrenico: se da un lato il regista insiste sul pacifismo come via per la concordia fra i popoli, dall’altro non ci pensa su due volte nello scaricare tutte le colpe (e proiettili di qualsiasi tipo) dei conflitti sullo straniero americano. L’ultima mezz’ora infatti, lasciata da parte la natura e i buoni sentimenti, sfoga tutta la rabbia repressa dalla Corea unita contro i bombardieri americani: scene altamente spettacolari e splendidamente girate ma in cui la violenza è brutale e cancella d’un colpo tutti i buoni propositi precedentemente enunciati. Sconcertante è poi pensare che un successo commerciale in realtà presenti così esplicitamente una tesi profondamente manichea: tutti uniti per scacciare con ogni mezzo l’americano, capace di portare solamente bombe e morte. Un gran bello spettacolo certo, che però tratteggia inquietanti prospettive.
Regia: PARK Gwang-hyun
Anno: 2005
Durata: 133′ min