“LE FALSE CONFIDENZE” DI P. MARIVAUX

Segreti e bugie in veste da camera

Amore e intrighi, amore e denaro, amore e interessi. Ancora: amore e affari, amore e compromessi: quando l’affetto si declina in chiave utilitaristica, la vita interiore si degrada fino al livello del commercio; dei segreti sussurrati tra carta da parati e carta bagnata d’inchiostro, non rimangono che schermaglie, conchiglie prive della più elementare forma di vita.

Una commedia scritta nel Settecento, questa di Marivaux, che potrebbe benissimo raccontare i giorni nostri, tutti i momenti tenuti assieme dalla fretta, dall’ansia, dalla smania di possesso, dall’edonismo sfrenato, da una buona dose di superficialità. Giorni moderni, insomma. E l’amore, in fondo, è sempre lo stesso, così come sempre gli stessi, uguali, sono i tanti diavoli tentatori che cercano di portarlo su di un’altra strada: quella dell’affare.

Tre atti, scritti al culmine della carriera dell’autore francese, “Le false confidenze” prende vita in un interno borghese: i personaggi si girano attorno in un turbinare di buone maniere ed etichetta d’alta scuola, analizzati al microscopio nelle loro piccole, grandi pecche, in un gioco di incastri, silenzi, parole non dette (o dette solo a metà), intenzioni (vere) non rivelate ed altre (presunte) mostrate ai quattro venti, con risolutezza.

C’è Madame Argante (Betti Pedrazzi), aristocratica, arcigna dama, degna dei più tristi orfanotrofi favolistici, mente rivolta al profitto e cuore freddo di moneta; sua figlia Araminte (Anna Bonaiuto), bella, ricca vedova di finanziere, propensa al sentimento autentico ma con le ali tarpate presto da chi, della vita, ha forse capito più di lei; un nobile dall’aspetto austero, interessato ad un’opportunità matrimoniale (e vitalizia) con la bella vedova; infine Dorante (Andrea Renzi), borghese volenteroso, dalle belle speranze ma, povero lui, di poca, se non scarsissima dote. Attorno a questo quadrato magico, dove i rapporti si intrecciano e si sciolgono in un battere di ciglia, tra camera da letto e sala da pranzo, tra promesse non mantenute e segreti già noti a tutti, si muovono personaggi minori che, apparentemente, sembrano reggere le fila del discorso, per poi veder precipitare la situazione, inevitabilmente, a loro discapito: uno su tutti, Toni Servillo, mimica eccellente e modi suadenti, nel doppio ruolo di servo in casa di Araminte e regista dello spettacolo.

Prodotto da Teatri Uniti, “Le false confidenze” si regge su di un sottilissimo equilibrio, su di una capacità d’azione molto limitata: nessun cambio di scena, così come nessun colpo di scena, intervengo a disturbare la fluidità del racconto, l’intrecciarsi di storie e pensieri, nei quali, almeno all’inizio, si fa un po’ di fatica ad entrare; tutto si svolge tra pareti domestiche, in un andirivieni di passi, in un frusciare di vestiti, in un incrociarsi di sguardi in tralice.

Una regia essenziale, quella di Servillo, che nulla aggiunge per arricchire, presentando quello squarcio di realtà borghese così com’è, nell’essenzialità dei movimenti, nell’aridità delle emozioni, nella superficialità delle intenzioni, con dialoghi tagliati netti, precisi, capaci, nella loro stringatezza, di suscitare una risata alla luce di nodi mal riusciti. Tutti, nello scambiarsi quelle confidenze, vorrebbero qualcosa, l’amore o un buon contratto: tutti sono disposti a tramare, in un modo o nell’altro, pur di ottenerlo, si agitano, sono ansiosi, si danno da fare in una dorata innocenza del mondo circostante, rimangono sospesi, trepidanti, in un sottile mistero creato ad hoc per velare i tre atti.
Che qualcuno, poi, rimanga insoddisfatto, accettando di scendere a patti con la realtà (dove non c’è posto per il piacere, ma solo per il dovere), è cosa nota, tristemente, fin dal principio.