Ci sono evenienze ineluttabili nella vita, appuntamenti che il destino posiziona sul nostro cammino con la stessa puntualità di un ostacolo in una corsa equestre, mentre noi, agili puledri, siamo sempre pronti a saltare, al ritmo della certezza, sicuri che lì era ad aspettarci, inevitabile, inesorabile: la cena con i parenti a Natale, il bollo dell’auto, la vaccinazione antitetanica, l’arrivo dell’estate, la gelata d’inverno, la sgradevole visita dal dentista che ci lascerà, come sempre, con un’otturazione in più e un canino in meno. Il festival di Sanremo è, naturamente, forse il più inesorabile di questi eventi. Sempre più uguale, e allo stesso tempo sempre più sfacciato nello scavare a fondo dei limiti del buon gusto, sempre più arcaico ma allo stesso tempo sempre nuovo, un rituale che si ripete con religiosa esattezza, dove a variare sono i costumi, le epoche, le scenografia, le polemiche, mentre la musica prosegue invariata, un lieve brusio di sottofondo che quasi non vuole disturbare e si fa sempre più timido, schivo.
Perché guardiamo Sanremo? La domanda ha il sapore esistenziale di un quesito sulla natura dell’essere, un ottimo punto di partenza per una infinita dissertazione filosofica. Rispondere sarebbe un po’ come chiedere ad una persona di spiegare perché si cerca Dio. Il festival ha il fascino del mistero assoluto, la sensuale attrazione, quasi mistica, di incollare tutti al televisore (sempre un po’ meno, forse, ma questo lo sapremo solo in mattinata) quasi fosse l’ipnotico invito di una prostituta di provincia che si presenta come inavvicinabile ma poi, chissà, forse si rivelerà la miglior notte della nostra vita. L’Italia non si arrende e preme il telecomando, che quasi involontariamente ci guida a quel primo canale, esattamente nel giorno e nell’ora in cui inizia quella trasmissione che, insieme a svariati secoli di estenuante torpore, ha saputo regalarci barlumi di nuova speranza, vere emozioni, e ha aperto la strada a tante rivelazioni in campo musicale.
Chiariti i nostri dubbi, anche di chi scrive, sul perché un emisfero del nostro cervello ci spinge a guardare il festival con lo stesso incontrollabile riflesso con cui regola i nostri battiti cardiaci indipendentemente dalla volontà individuale, è il caso di vedere cosa ci ha offerto di nuovo quest’annata. Gli accidenti variano ma durano l’attimo di un’inquadratura, e non vale la pena esplorarli per più di una riga: sorvoliamo, perciò, sul passaggio di modelli e modelle che come al solito non sanno l’italiano (spesso pur detenendo un legale passaporto del nostro paese) ma che certo un giorno lo impareranno e allora lasceranno l’Ariston, e sorvoliamo anche su improbabili siparietti simil-comici che ormai sono ancora più soporiferi di un vecchio intervallo con le pecorelle al pascolo. Ci limitiamo a mettere in luce le abilità canore di Laurenti, al di sopra di parte dei cantanti in gara, l’intervento di Benigni, come sempre indimenticabile, esilarante nell’attaccare Berlusconi e profondo nel trattare il tema dell’omosessualità (“è nel piano di Dio, di peccati non c’è che la stupidità”), l’apertura con la voce, celestiale e terrena al tempo stesso, naturalmente unica, di Mina che intona il Nessun dorma, e l’esibizione dell’ospite Katy Perry, davvero convincente. Cerchiamo quindi di concentrarci sulla musica, non molta in realtà, che si è sentita durante la serata. Il problema si fa ogni hanno più pressante: a distinguere il Sanremo 2009 dal Sanremo ’59 è, essenzialmente, il fatto che la tv adesso è virata a colori; a parte quello, i big ripropongono imperterriti melodie già note, che accrescono ancor di più il senso che la musica di Sanremo non sia altro che un’indefinita colonna sonora di sottofondo che continua a suonare, con minime variazioni, da quasi sessant’anni.
Apre Dolcenera, rinnegando quel poco che costituiva in lei un afflato ribelle per convertirsi alla tradizione (ed anche ad arrangiamenti più spiccatamente radiofonici), segue Fausto Leali che sciorina rocamente una serie di luoghi comuni su figli che lasciano padri, padri che comunque amano i figli, che avranno a loro volta altri figli che erano padri dei figli dei figli dei padri …il tutto condito da una musica standard sul lacrimoso andante e da un’imprecisione vocale di troppo. Tricarico e la sua Il bosco delle fragole sono indubbiamente più originali, ma in questo caso aspettiamo con ansia la versione registrata che ci eviti gli imbarazzi canori delle sue esecuzioni dal vivo; lo stesso dicasi dell’ineclissabile Patty Pravo e dei suoi vocalizzi agonizzanti da karaoke di beneficenza che adombrano un interessante arrangiamento.
Superata la Pravo, torna con la puntualità dell’influenza invernale Albano: L’amore è sempre amore è quella pillola di saggezza che il cantante pugliese ci offre in titolo. Albano è sempre Albano, replichiamo noi, la sua canzone è sempre la sua canzone, non si nota alcuna, minima, differenza: quasi si confonde lo spartito, e l’orchestra ha un bel da fare a capire come differenziarla dai pezzi degli anni passati – forse un colpo di triangolo in più? Che dire? Sanremo è sempre sanremo, e non dir nulla di nuovo non è altro che non dir nulla di nuovo. Si potrebbe andare avanti per ore, ma perché non concentrarsi su un altro amore over-60, quello della Zanicchi che in fondo, ci dice, l’amore sarà sempre amore ma anche il corpo vuole la sua parte? Ti voglio senza amore, allora, ci canta lei, con un arrangiamento davvero degno di nota ed un’orginalità inattesa ed encomiabile che, ahimé, non va oltre la prima strofa: poi, con la forza di un autocarro, i soffusi gorgheggi e sapori jazz del brano vengono travolti da una sviolinata che vuole essere orecchiabile ed è, perciò, naturalmente ridondante e già sentita.
Largo ai giovani, allora, per una ventata d’aria fresca: ma se l’unica differenza dal Sanremo odierno e quello ante-sbarco-sulla-luna erano i colori, l’unica variante fra Marco Carta e i big stagionati è l’assenza di dentiera: La forza mia è lo sfinimento nostro, l’incessante melodicità da sigla-villaggio-vacanze che sempre affligge le canzoni del giovane pargolo defilippiano, che sarebbe anche dotato di una buona voce di per sé (avevamo detto di sorvolare sul costume, ma come ignorare la mise da recita di fine anno, con tanto di goffo papillon al collo?). Lo stesso sfinimento affiora con la troppo tradizionale e prevedibile canzone del trio Pupo-Belli-Youssou N’Dour: tranquilli, non sono il trio comico che affianca Bonolis, né una barzelletta, anche se presentano la stessa improbabilità di uno schieramento politico da seconda repubblica. Il loro brano ha la contemporaneità di un grammofono di prima generazione, l’odore della naftalina, l’innovatività di un dipinto del neolitico, intervallato da intermezzi etnici del cantante senegalese che non fanno altro che evidenziare la scontatezza del resto del brano.
Squarci di vita? L’invettiva all’Italia del pezzo di Masini (con annessa polemica, per averci ricordato che il belpaese ha avuto effetti devastanti sulle nostre beneamate gonadi – ovviamente la sua parafrasi è più schietta) ha il suono del già-sentito ma per lo meno il sapore dell’autenticità e della sua voce ruvida e sincera; gli Afterhours, con un brano non magistralmente eseguito ma dall’ottimo arrangiamento – e dalle ottime possibiltà di futuro; Nicky Nicolai e Stefano di Battista, con un brano più sbarazzino del solito, che dà un po’ di freschezza e scaccia l’odore di naftalina come uno spray rinfrescante ma che, in fondo, lascia sempre di base un certo cattivo odore (la ricorrenza di soli e amori trabocca come una cazzuolata di miele in una tazzina di caffè); Francesco Renga, pur con qualche riserva, che sceglie di presentare un brano fin troppo ricercato e colto, con citazioni pucciniane (ancora il Nessun dorma) e uno stile volutamente liricheggiante, ma indubbiamente suggestivo e affascinante; Alexia e Mario Lavezzi che si scagliano contro la cocaina a suon di vocalizzi, rifuggendo la valanga di cuori, amori, fiori e soli, e questo è degno di nota. Dei Gemelli Diversi non si può dire niente di buono né di male, se non che il loro brano ci verrà martellato dalle radio fra due giorni, e la presentazione a Sanremo è poco più che accidentale nell’ovvio successo di questo solito rap dalle tinte più istituzionali ed ecumeniche.
Dulcis in fundo, arriva il casus belli: Povia. Una bella canzone? Indubbiamente, l’arrangiamento e la composizione musicale sono magistrali, sintesi perfetta fra un brano orecchiabile ma al contempo originale e senza paura di sperimentare (il dialogo musicale con la corista, ad esempio). Se la canzone fosse in turco, l’analisi si fermerebbe qui; ahimé, però, la scelta della lingua italiana ci obbliga all’ascolto del testo, su cui si è già detto di tutto e di più. Arrivare a certe tesi retrograde – le visioni di Freud, citato nel brano, sono state fortunamente superate dalla psicologia moderna ma Povia sembra non essersene accorto – è sinceramente sconcertante. Se è pur vero che la canzone si limita a raccontare una storia – ma dietro ad ogni storia, si sa, c’è una morale da imparare – la parabola del gay redento era sinceramente l’ultima perla di cui il nostro paese già notevolmente in ritardo sui tempi di modernizzazione aveva bisogno. La corista che ansima mentre Povia canta di gare di sesso gay, poi, rasenta lo squallore. L’agitazione dell’Arcigay e l’intervento di Grillini e Benigni – che recita a memoria la famosa lettera di Wilde all’amato e che da solo meritava tutta la durata del festival – sono per fortuna la naturale reazione di un paese che si sforza di essere civile nonostante tutto; le reazioni omofobe dell’Ariston, poi, ci ricordano ancora una volta di che sorta è composto il pubblico del teatro, speriamo non rappresentativo della maggioranza del paese. Di sicuro resta solo che Povia è una macchina da guerra in campo di marketing; lascia il palco prima dell’applauso lasciando dietro di sé un manifesto che recita “Nessuno sa com’è fatto un altro uomo” un’altra di quelle massime zen che dicono tutto e niente di cui non sentivamo il bisogno. Rispondiamo quindi con un’altra, offertaci da Albano: che vuoi, caro Povia, l’amore è sempre amore.
Come sempre le proposte più interessanti vengono dai giovani (per l’appunto, quest’anno vengono denominati Nuove Proposte): Egocentrica di Simona Molinari è il brano più bello e interessante sentito nella serata, il più allegro, spensierato, divertente, consapevole; Irene, figlia di Zucchero, stupisce per la sua potenza vocale e una canzone niente male, Malika Ayane conferma una vocalità unica, calda e profonda, al servizio in questo caso di un pezzo più classico eseguito impeccabilmente; uniche perlplessità le ha date Filippo Perbellini, non tanto per una voce che è a dir il vero matura e sicura, quanto per un’inquietante somiglianza con il suo mentore, Riccardo Cocciante, che oltre ad avergli scritto il pezzo, sembra aver plasmato un giovane innocente a sua immagine e somiglianza, con tanto di improbabile permanente da scarica elettrica. L’angelico pargolo, un Cocciante formato mignon, esegue quella che potrebbe essere una canzone delle opere popolari dell’autore italo-francese con lo stesso stile che ci si aspetterebbe in suddette opere: visto il successo di Giò di Tonno e Lola Ponce l’anno passato, entrambi figli della Cocciante-factory, c’è da temere che queste mutazioni mietano esiti positivi, per fortuna limitati alla durata del festival. Un unico dubbio: perché i giovani devono essere presentati da un artista celebre e, aggiungiamo noi, ultrasessantenne (Paoli, Vanoni, Zucchero, Cocciante)? E’ l’amore dell’Italia per le raccomandazioni o il rifiuto di Sanremo di lasciarsi alle spalle quel vago retrogusto di clinica per anziani?
Nel suo duro verdetto, la giuria ha silurato gli Afterhours, Iva Zanicchi e Tricarico, ma non tutto è perduto: il ripescaggio è dietro l’angolo per le prossime serate. C’è sempre un’altra possibilità. Il cuore vuole amore, perché nessuno sa com’è fatto un cuore. Nella seconda serata si esibiranno i 13 big rimasti in gara e le 6 nuove proposte non ancora presentate. Che l’amore sia con voi.
Foto a cura di Romina Greggio Copyright © NonSoloCinema.com – Romina Greggio