Una notte di feroci scontri in Val di Susa. Una squadra del Reparto Mobile di Roma resta orfana del suo capo, che rimane gravemente ferito. Quella di Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante), però, non è una squadra come le altre, è Roma, che ai disordini ha imparato ad opporre metodi al limite e un affiatamento da tribù, quasi da famiglia. Una famiglia con cui dovrà fare i conti il nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini), figlio invece della polizia riformista, per cui le squadre come quella sono il simbolo di una vecchia scuola, tutta da rifondare. Come se non bastasse il caos che investe la nuova formazione nel momento di massima fragilità interna, si aggiunge quello dato da una nuova ondata di malcontento della gente verso le istituzioni. Un nuovo “autunno caldo” contro cui proprio i nostri sono chiamati a schierarsi e in cui ogni protagonista è costretto a mettere in discussione il significato più profondo del proprio lavoro e della propria appartenenza alla squadra.

La serie in 6 episodi prodotta da Cattleya – parte di ITV Studios – sarà disponibile solo su Netflix dal 15 gennaio 2025.
Tratta dall’opera letteraria “ACAB” di Carlo Bonini edita in Italia da Giangiacomo Feltrinelli Editore, la serie Netflix è ideata da Carlo Bonini e Filippo Gravino, che scrivono la sceneggiatura con Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini, con lo story editing di Filippo Gravino.
La serie richiama parte del cast di ACAB – All Cops Are Bastards, film del 2012 diretto da Stefano Sollima, al suo esordio sul grande schermo, tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini.

“Due sono i temi che scatenano i conflitti del nostro racconto: ordine e caos – raccontano gli autori della serie – A moderare questa antinomia le società moderne utilizzano due forme di controllo: la legge e la morale. Necessarie a tracciare una linea di confine. Da una parte c’è tutto ciò che è lecito, giusto o semplicemente accettato dalla società: amore, famiglia, aspirazione alla felicità, libertà individuale, rispetto degli altri. Dall’altra parte c’è il caos, tutto ciò che è al di fuori della legge e della morale: illegalità, tradimento, violenza, vendetta. La domanda tematica dalla serie attraversa i due piani, quello sociale e quello individuale. Ci chiediamo: quanto disordine può permettersi una società democratica? Mentre, sul piano individuale, quanto caos siamo in grado di governare nelle nostre vite? I celerini non sono poliziotti come gli altri. Non indagano, non arrestano ladri e spacciatori. I celerini sono come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. Sono gli uomini scelti dallo Stato per presidiare quel confine sottile e oscuro, quella zona d’ombra, che chiamiamo genericamente “piazza”, sia questa il centro storico di una città, una discarica, un cantiere, i cancelli di una fabbrica, il molo di un porto, uno stadio. Sono la faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino nel suo atto di ribellione. Spesso, la sola faccia tangibile che lo Stato offre di sé. In questo spazio, la legge viene spesso interpretata e declinata secondo sentieri imponderabili, nel bene e nel male, e i patti sono, anche se discutibili, molto chiari. I nostri poliziotti, le cosiddette “forze dell’ordine”, sono pagati per reprimere gli improvvisi geyser di disordine che ogni società tenta faticosamente di espungere da sé. Sono i prescelti a fronteggiare la minaccia del caos, perché strumento con cui lo Stato esercita il suo monopolio della forza. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge l’ordine: uomini e donne a cui è pericolosamente consentito di vivere tra legge e disordine. Sono abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a farne strumento di repressione. Ma tutto questo avviene all’interno di un confine protetto, che è quello della squadra. Un perimetro dentro al quale non è più la lettera della legge a indicare i comportamenti leciti, lo spazio di azione; ciò che conta davvero è solo il vincolo di fratellanza e il proteggersi l’uno con l’altro. Questo è l’unico modo per sopravvivere. Così facendo, è possibile, per loro, vivere senza lasciare che sentimenti oscuri che provano nei servizi di ordine pubblico, contagino poi le proprie esistenze quotidiane? I poliziotti si trovano, così, prigionieri di esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla prova le leggi e la morale, la loro interpretazione e il loro reciproco rapporto. La nostra serie indaga le conseguenze umane e sociali di questa pericolosa scissione.”

Michele Alhaique, il regista, aggiunge: “Quello che mi è saltato subito agli occhi leggendo i primi copioni di ACAB è il lavoro che gli autori avevano fatto per mettere a fuoco il rapporto tra la professione e la vita privata dei personaggi. Si tratta di una relazione bidirezionale. ACAB è una serie che mette al centro i personaggi, sono loro che veicolano la storia fin dal primo fotogramma. È la frustrazione privata di Pietro (“Mia moglie s’è rotta il cazzo!”) a far sì che usi la mano pesante contro gli antagonisti in Val di Susa? O si tratta invece del suo modo di gestire l’ordine pubblico? Nascono prima i conflitti interiori o quelli esteriori? La violenza è un tema che ho sempre provato ad esplorare nei miei lavori. In ACAB la violenza viaggia su due binari paralleli, c’è quella visibile, fisica, messa in scena negli scontri. Poi c’è un’altra violenza, che viaggia più sotterranea e minacciosa, che condiziona in maniera più profonda i personaggi e le loro relazioni. Ognuno di loro affronta un percorso privato che lo porterà a scontrarsi con i propri affetti e saranno questi conflitti a influenzare le azioni che compiranno con la divisa addosso.”