Nell’agosto del 2020 nel porto di Beirut si verificò una enorme, catastrofica esplosione, dovuta all’improvvido stoccaggio di materiali altamente infiammabili in luoghi dove, evidentemente, non sarebbero dovuti stare…Il nitrato d’ammonio surriscaldato creò una deflagrazione simile ad una scossa sismica, e simile ad un terremoto fu anche l’effetto antropologico sulla popolazione di un Paese sfortunato e da decenni già disastrato a causa di varie vicende dolorose. La morte di centinaia di cittadini, ma soprattutto la complicata vita dei sopravvissuti fanno da sfondo ad un film che a sua volta narra, come in una matrioska, proprio la difficoltà di girare un’opera cinematografica in condizioni di assoluta emergenza.

Cyril Aris è un regista nato a Beirut nel 1987, attivo da una dozzina d’anni su vari fronti, avendo al suo attivo serie televisive, cortometraggi e documentari. Anche il suo precedente doc, The Swing, aveva avuto la sua premiere mondiale qui a Karlovy Vary, che sembra essere un festival particolarmente caro al libanese, tanto che egli è quest’anno nel concorso principale, circondato, per il resto del parterre, da sole opere di finzione.

Sulla finzione, ovvero sulla creazione di un’opera cinematografica, è incentrata anche questa ricostruzione della vita della capitale nei mesi successivi alla tremenda esplosione dell’estate del ’20, impostata però in un’ottica particolarmente interessante e fruttuosa, quella della preparazione del film Costabrava, Lebanon, che un’altra regista libanese, Mounia Akl, stava provando a girare in quel periodo, in condizioni già estremamente difficili. Alle ristrettezze logistiche e politico-diplomatiche del paese mediorientale si sommavano, ricordiamolo, le complicazioni del Covid, che tanto più in una regione con limitate disponibilità ospedaliere rendeva ancor meno agevole il quasi donchisciottesco progetto di girare un’opera cinematografica in piena pandemia.

Ma più che un film su un film, o ancor più che un “making of”, questo di Aris sembra essere un omaggio alla resilienza della collega Mounia, che con l’eroica produttrice Myriam Sassine e la troupe sballottata fra un inconveniente e l’altro prova a portare a termine le riprese di una “storia eco-familiare” che si trova d’improvviso immersa in una tempesta perfetta: il gruppo che girava Costabrava si trovò infatti a dover combattere ad un tempo contro Covid, conseguenze dell’esplosione, svalutazione delle risorse produttive, proteste antigovernative, e per soprammercato difficoltà di movimento del protagonista Saleh Bakri, palestinese che vive in Israele (lo si può ammirare ne “Il tempo che ci rimane” di Elia Suleiman o in “Salvo” di Grassadonia e Piazza). Per la cronaca il film fu poi portato a termine, esordendo alla Mostra di Venezia nel 2021, ma raramente, si potrebbe affermare, la realizzazione di un’opera è stata il risultato di un simile concentrato di sventure e una combinazione di miracoli e forza di volontà elefantiaca come qui raccontato (la stessa produttrice, ironicamente, cita l’esempio di “L’uomo che uccise Don Chisciotte” di Gilliam).

Aris riesce a far ben stratificare i vari livelli e statuti di realtà che sono alla base della sua personale “narrazione di una narrazione”: si pongono in primo piano, alternandosi e rafforzandosi a vicenda, le conseguenze immediate del disastro sul tessuto sociale libanese, i retroscena del lavoro sul set del film della collega, e, ovviamente, la riflessione più generale sui compiti che l’arte può avere in momenti di crisi. Cos’è, infine, un film girato in mezzo al caos più totale? Una testimonianza verace del reale? La concentrazione ostinata e contraria di forze creative? Una “semplice” piattaforma di sopravvivenza? Il mero risultato di sforzi economico-produttivi? Questo e molto altro ci viene restituito nelle sedute auto-terapeutiche della troupe che si interroga sul senso del proprio operato, sulla necessità di continuare ostinatamente a vivere in un luogo che sembra maledetto, sulla possibilità di pagare omaggio alle proprie radici, rimanendo nonostante tutto nel bel mezzo dell’occhio del ciclone …

Il vulcano del titolo è effettivamente scoppiato, la lava è esondata, ma qui, questa volta Pompei non è rimasta immobile e sommersa, e il momento di crisi si è trasformato in una danza fra realtà e finzione, in un delicato scavo fra i tessuti umani bruciacchiati degli artisti, pronti a rinascere come una Fenice, nel racconto per fasi della riemersione dal nulla di un film che sembrava segnato. Cyril Aris aiuta la collega Mounia Akl, un film completa e rafforza l’altro, la documentazione si tinge di invenzione, la finzione si finge, si improvvisa ricostruzione storica, e riesce anche ad accennare una rapida analisi della difficile situazione attuale, fra rovine di guerre civili e documenti sgranati di tempi che furono.

Un film, questo, dunque, che scava nel passato del Libano, scava fra le macerie della sua capitale, scava nel dolore e nella (momentanea) disperazione di una troupe cinematografica, e riemerge potente con tutta la forza della vita che rinasce.