Ultimo dei tre film di Herzog girati nel 2016 ad arrivare sugli schermi, Salt and fire è anche l’unico film di fiction a cavallo trai documentari Lo and behold: reveries of the connected world e Into the Inferno. Presentato al Festival del cinema di Shanghai, si basa sul racconto Aral, scritto da Tom Bissel.

Una squadra di tecnici dell’ONU giunge in Colombia per la perizia di un sito geologico distrutto dagli scarti di produzione di una grossa compagnia. Fanno appena in tempo ad atterrare che vengono sequestrati da un commando guidato poi dal CEO dell’azienda, che lungi dal voler impedire uno scandalo per preservare se stesso e i guadagni, ha ben altri piani, di natura universalistica, si potrebbe dire.

Girato in appena 16 giorni, Salt and fire è un film quasi contradditorio nella sua natura, da un lato ripropone una riflessione herzogghiana tipica e per la prima volta a essa concede un ruolo primario, dall’altro lo fa con un film breve, minore nella fattura, spontaneo. L’autore bavarese con quest’opera si scaglia con tutte le sue forze contro la deriva tecnocratica occidentale, per proporre invece una visione comprensiva dal punto di vista emotivo, s’intende che abbracci la totalità della natura senza ridurla a numeri, calcoli e piani. L’approccio però è evoluto, tutto fuorché naïf: che Herzog sia di mentalità post-romantica è un dato di fatto palese per chi ne abbia visto anche solo un paio di film, ma qui nel dispiegamento degli scopi del CEO (un Michael Shannon sempre di alto livello, alla seconda collaborazione con l’autore dopo My son, my son, what have ye done) il film si apre all’aperta condanna di una mentalità che agisce sul piccolo sul propoagandistico e non si preoccupa delle situazioni a lungo termine, badando di risolvere i problemi che ogni volta sorgono senza proporre soluzioni di sistema, e che ormai è imperante nella società delle classi medie, incarnatasi nel feticismo del dato e nello scentismo da bottega nella maggior parte dei casi, e nello scetticismo tout court reattivo e a oltranza in quelli peggiori.

La prima parte dell’opera è straordinariamente verbosa, composta da dialoghi frenetici e urla logorroiche che, un po’ come in Cosmopolis riflettono la supremazia della quantità, dello horror vacui sulla pienezza a sè stante della rappresentazione. Quel che ha vale, cioè ha valore, vale perchè è misurabile, perchè si paga. Herzog mette in scena questa velleità con rabbia e un ritmo frenetico, salvo abbandonare tutte queste caratteristiche schizofreniche nella seconda metà, in cui Ferres/spettatore viene abbaondanata nel deserto e ivi deve sopravvivere per capire. L’enorme distesa bianca con il solo sfondo del supervulcano Uturuncu a incombere minaccioso è il luogo classico per un film del nostro, ma qui il suo scopo è quasi di denuncia, poichè l’immensità salina che si estende per miglialia e miglialia di chilometri è una rovina, e qualcuno (Herzog-in-Shannon) deve sacrificarsi per raccontarlo, anche con un film che magari non è perfetto, ma parziale, in parte oscuro, come il soggetto di cui tratta.

Perchè i difetti del film riguardano essenzialmente la tecnica, e la messa in scena non sarà malvagia ma di sicuro è frettolosa, forse volontariamente troppo spontanea con lo scopo forse di riflettere la genuinità della situazione. In conclusione, chi scrive è consapevole che Salt and fire sarà magari sgraziato, e questo flusso finisce per riversarsi sulla regia, che esplode soltanto nella seconda parte del film (con i topoi abituali del regista) comunque forse troppo mezzo tecnico all’interno della direzione della pellicola, ma è altrettanto certo che Herzog con Salt and fire sia riuscito a confezionare un’opera che per una volta è più importante che bella.