“La buona novella” di Fabrizio De Andrè, ideato e diretto da David Riondino

Le cose belle e sagge non invecchiano mai

Parole, e musica. Poesia recitata, cantata, suonata. Con quasi quarant’anni di vita alle spalle, senza dimostrarli. O dimostrando che, quando a scrivere sono persone dal libero pensiero, dalla parola raffinata, il tempo migliora, aggiungendo, piuttosto che togliendo. Così, “La buona novella” approda a teatro, emozionante come fosse la prima volta.

Il teatro di Corridonia è un piccolo gioiello, come tutti i teatri delle cittadine di provincia, dal centro storico abbracciato da mura medioevali. Un gioiello pieno di pubblico. Forse siamo qui tutti per lo stesso motivo, per quel titolo, “La buona novella”, che ai più grandi ricorda un passato mai passato, ai più giovani il presente fatto di gioiose scoperte, ideali da condividere con i padri. Forse, invece, siamo qui perché non si può non amare Fabrizio De Andrè, perché l’idea di trovarlo a teatro ci fa tirare una boccata d’aria in questo panorama di gingle pubblicitari senza memoria, forse, invece, perché il disco è sepolto nella polvere, vicino ad un giradischi che nessuno, in casa, usa più. È arrivato il tempo di rispolverarlo.

David Riondino, con la collaborazione di Fabio Battistelli, ha pensato e concretizzato questo progetto: prendere il disco di De Andrè, datato 1970, dal tema toccante, delicato (vita e morte di Gesù Cristo tratte dai Vangeli Apocrifi, non inclusi nell’elenco dei libri sacri alla tradizione cristiana) e riadattarlo, per due voci, coro, banda.
Si, proprio banda, in questo caso di Petriolo, anche se potrebbe essere benissimo quella di qualunque altro paese d’Italia. Lo stupore è d’obbligo: le bande fanno parte del nostro retroterra più genuino, artigianale, a tratti anche simpaticamente sgangherato. Eppure, “La buona novella” sembra non aspettasse altro: perché è proprio la presenza della banda, dalla dodicenne in prima fila, fino al sessantenne laggiù in fondo, ai gong, a dare potenza espressiva ad un album già di per sé importante, emozionante, coinvolgente; la musica scritta da De Andrè par diventare ancora più bella, donatasi senza remore ad un gruppo paesano che ce la mette proprio tutta per renderle l’onore dovutole. C’è anche un ensamble, quello degli Illuminati, di Spoleto, che sporca di jazz il disco, clarinetto, chitarra, pianoforte, contrabbasso e batteria, a far da contrappunto alla compattezza sonora di Petriolo.

Il coro è quello della Schola Cantorum “Santa Cecilia”, di Corridonia: l’effetto, quasi lirico, avvolge il pubblico, che non riesce a resistere alla tentazione degli applausi in un tutto musicale senza pause. Infine, le voci. Quella di Riondino, attore cantante appassionato, e della sorella Chiara, dolce, materna, dai toni morbidi, adatta al racconto della vita di un uomo, prima che di un messia.
Così, in un agglomerato di suoni, parole, l’album, all’epoca della sua uscita oggetto di critiche, viene riscoperto, fatto oggetto di una seconda giovinezza: L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Via della croce, Tre madri, Il testamento di Tito.

Non sembra passato un solo giorno, da quel lontano 1970: i testi rivelano subito tutta la propria attualità, l’urgenza, la profondità, la bellezza, istantanee di pura poesia capaci di raccontare la storia più antica, quella più moderna. Ancora una volta, il Cristo che giunge fino a noi è quel figlio dell’uomo, fratello anche nostro, che De Andrè aveva cercato, incontrato, nei Vangeli Apocrifi. Non solo musica, per quanto ciascun pezzo sia capace di vivere una vita propria, ma pura poesia, umanità riversata su partitura, saggezza fatta spartito, e verso.
Grazie a De Andrè, alla sua buona novella, il teatro si trasforma in una piccola zona franca, lontana dal martellante chiacchiericcio della vita quotidiana. Da vedere, rivedere, riascoltare.