Starlùc, una riflessione scanzonata e intelligente sul genere umano

«Pensa in grande. Non temere»: questo è il motto che ricorre – quasi a costituire un filo rosso nelle molte declinazioni in cui è evocato – all’interno di Starlùc, lo spettacolo presentato recentemente al Teatro universitario di Ca’ Foscari dalla compagnia veneziana Malmadur. Dopo un’incubazione sviluppata tra la laguna e il festival teatrale di Bassano, e a distanza di qualche anno, questo collettivo ha riproposto la pièce con una drammaturgia e un esito scenico profondamente ripensati. E a discapito del nome che si sono scelti come ironico manifesto, Malmadur appunto, Starlùc dimostra un’evidente maturità stilistica e teatrale, che si coglie sia dal punto di vista testuale che da quello interpretativo.

L’approccio è schiettamente fantascientifico: ci troviamo in un nuovo pianeta, dove il genere umano ha incontrato una nuova casa e nuove possibilità di esistere, negate invece dal disfacimento della terra: la leader carismatica, Dore, è la depositaria del citato slogan, che utilizza per animare i suoi simili nell’epica impresa di colonizzazione che li attende. Ma – purtroppo – la stessa Dore, appena raggiunta la nuova patria, muore, lasciando i suoi seguaci nel più totale sconforto. Come apprendiamo mano a mano che la vicenda procede, per evitare che disillusione e paura abbiano il sopravvento un gruppo di persone hanno l’idea giusta: diffondere cioè il concetto che Dore, lungi dall’essere morta, è invece divenuta una divinità. Da qui prende avvio un intreccio che abbraccia un millennio di storia – riassunto in pochi esilaranti minuti in cui vengono chiamati in causa sommovimenti sociali e naturali di ogni tipo, compresa una «guerra dei trecento anni» – che ha comunque al suo centro la religione, con un clero che si dimostrerà sempre più dispotico e intollerante. Quando una sentinella, irrimediabilmente devota a Dore, ne annuncerà il ritorno, quelle stesse gerarchie ecclesiastiche si preoccuperanno di negare questa reincarnazione per mantenere immutato potere e status quo.

Anche se è impossibile dare conto di tutti i rivoli in cui la storia si dipana – tra imprenditori falliti che divengono fattorini al soldo dei preti/sbirri (i «cleroziotti») e sette come quella degli «Ordaliani», che vivono in clandestinità e predicano il suicidio di massa all’agognato ritorno della divinità – la fantascienza appare un indovinato stratagemma per parlare degli uomini di oggi e di ieri, e soprattutto della violenza di cui sono sempre stati capaci in ogni epoca e latitudine. Il tutto in una chiave stralunata e comica, che lascia però sempre aperte e sanguinanti le domande in cui tutti ci si arrovella, a cominciare proprio dall’esistenza di Dio. Ma c’è spazio anche per pseudosupremazie razziali (i «nativi», cioè gli abitanti del pianeta invaso dagli umani, sono sospettati di non avere un’anima, argomento utilizzato nel reale passato coloniale, e nemmeno troppi anni fa), forme acute di idolatria, malafede e voglia di repressione: si potrebbe dire che il copione passa in rassegna, mettendoli alla gogna, i mali che gravano su questa epoca così come sulle precedenti.

I cinque attori in scena – Elena Ajani, David Angeli, Jacopo Giacomoni, Davide Pachera e Marco Tonino – sono tutti molto bravi nel condurre una recitazione spesso metateatrale, scanzonata ma di estrema lucidità, passando con disinvoltura da un ruolo a un altro e trasportando gli spettatori in uno scenario che non può non richiamare, anche qui in termini ironici, il Grande inquisitore dei Karamazov dostoevskiani. Anche le scene, realizzate unicamente con tubi composti e ricomposti a costituire sempre nuovi luoghi e oggetti, sono davvero funzionali, così come la lettura registica e la drammaturgia di Alessia Cacco e Jacopo Giacomoni e l’azzeccata scelta sonora e musicale, curata dal solo Giacomoni. Uno spettacolo fresco e intelligente, che meriterebbe di girare.