Si ripete ancora una volta, in questa stagione di miracoli, l’uscita in sala di film documentari. Si tratta di due titoli italiani, uno, prodotto da Grazia Volpi, figlio (o figliastro) dell’istituzionalissima scuderia Luce (che ne cura la distribuzione), l’altro produzione indipendente giunta in porto grazie alla lungimiranza (magari solo economica, ma già questo ci basta) di Lionello Cerri. Si tratta di Forse Dio è malato, di Franco Brogi Taviani, sugli sfaceli che sempre più umiliano il continente africano e le sue genti, e di Biùtiful Cauntri, diretto dal terzetto Calabria, D’Ambrosio, Ruggiero (rispettivamente montatrice, regista e giornalista) che racconta e svela con piglio da reportage ma sguardo d’autore il disastro ambientale in cui sprofondano vaste zone della Campania, prima fra tutte la provincia di Napoli.
Il fatto che tutti e due siano documentari, che tutti e due – anche se in modi diversissimi – possano essere definiti “film di denuncia” e che tutti e due abbiano l’esplicito intento quasi programmatico di ottenere attraverso l’atto cinematografico un miglioramento concreto dell’universo che raccontano, non è forse sufficiente per istituire un paragone tra le due pellicole. Eppure le due esperienze cinematografiche, messe una accanto all’altra, sono stimolo proficuo per una semplice riflessione che nasce nel circoscritto ambito del cinema per arrivare ben oltre, fino a quello della società civile presa nel suo complesso.
Il regista Taviani legge il libro di Veltroni e all’improvviso si rende conto che il continente africano – tutto indistintamente, dal Senegal al Sudafrica – vive una lunga profonda e dolorosa tragedia, la quale necessita che un italiano parta in missione per raccontarla e darle voce. Taviani studia l’Africa – come si trattasse d’una materia scolastica – “addirittura” diversi mesi restando a casa sua, in Italia, per poi prendere armi e bagagli e girare un film documentario sul suo tour d’Afrique in cerca di scene e storie forti da riportare a casa e mostrare con orgoglio ai suoi amici compatrioti. Il risultato – un minestrone di pittoresco misto al tragico, con un po’ di goliardia da turisti di cui quasi ci si vanta – dice molto sul senso del progetto. Si parte dall’idea che le popolazioni africane non siano in grado di rialzarsi da sole, come se gli sfaceli che si trovano attorno fossero frutto esclusivamente di una qualche scellerata sprovvedutezza congenita e non piuttosto dell’onda lunga dei delitti e dello sfruttamento selvaggio dell’Occidente; e si giunge facilmente all’idea che sia necessario, per i colpevoli occidentali dalla coda di paglia, muoversi, partire per compiere atti eroici e aiutare quelle genti “meno fortunate di noi” (brividi!).
In Biùtiful Cauntri invece si parte da un diverso presupposto: “se il mio potere mediale può essere usato bene è prima di tutto per denunciare quel che le medesime logiche delinquenziali hanno prodotto nel mio paese, e magari stimolare una riflessione che porti presto a un cambiamento qui e ora” (o quasi). Dunque parlare di ciò che si conosce, che è più vicino, e poi impegnarsi per averne cognizione il più possibile precisa e profonda. I tre documentaristi hanno convissuto per mesi con i contadini, gli allevatori e i semplici cittadini delle zone che hanno scelto di raccontare, mangiando, dormendo e respirando (e nel caso specifico non è cosa irrilevante) accanto a loro, stesso cibo, stesse notti e stessa aria. È forse questo il primo motivo per cui nel loro documentario i volti e i luoghi non sfilano in parata in cerca d’effetto (come accade invece nel film di Taviani), ma restano sullo schermo anche dopo esser usciti dall’inquadratura e s’accumulano accrescendo ad ogni momento l’urgenza, la necessità e il senso del film. Come a dire, finalmente, che per correggere il mondo è per prima cosa necessario correggere se stessi.