Andrea De Rosa firma la regia di un’Elettra che comincia il proprio percorso in Sofocle per poi concretizzarsi in una modernità tanto efficace da risultare quasi evento di cronaca, episodio ‘quotidiano’ (o, verrebbe da dire, da quotidiano), intriso di terrore e di disperazione, volutamente attento alla radice del dramma e alle sue connotazioni più sofferte.
L’età contemporanea è spesso ricorsa al mito per rivisitarlo, riscoprirlo, riscriverlo, leggendo in quelle vicende, temporalmente così lontane, un potente canale per entrare e per scoprire le dinamiche odierne attraverso i volti di eroi ed eroine a cui l’esperienza ci ha accostati per lo più, per ragioni meramente scolastiche. Anche per questo, la scommessa di Andrea De Rosa e di Hubert Westkemper, ideatori del progetto, è particolarmente interessante e audace: non solo hanno apportato dei tagli al testo datato 1903 che mirano a delineare nell’essenzialità le singole personalità e a definirne i contrasti (spariscono dalla scena Egisto, l’Aio di Oreste, la Confidente, la Caudataria e, più in generale, chiunque sia esterno all’intersezione familiare, al legame di sangue fra gli Atridi) ma, soprattutto, hanno scelto l’utilizzo di cuffie per gli spettatori che permettano a ciascuno di udire ogni più piccolo suono individualmente, senza mediazioni.
Si tratta di una tecnica olofonica, studiata appositamente per sottolineare una drammaturgia già ricca di riferimenti sonori: valorizzare le sonorità, cioè concedere spazio alle suggestioni legate alla paura, al senso dell’oppressione, alla morte passata e pronta a tornare. Per realizzarla De Rosa si è avvalso del contributo di Westkemper, ingegnere del suono, già collaboratore di Bob Wilson e Luca Ronconi, da anni impegnato in attività di ricerca sul suono applicato allo spettacolo dal vivo.
I suoni, percepiti nell’intimità del singolo spettatore, rendono ancora più intensa la percezione dello spettacolo visivo: poca luce, essenziale e altrettanto essenzialmente proposta in modo circostanziato (Enrico Bagnoli), ricrea il buio, interiore e fisico, della stanza che ospita Elettra (Frédérique Loliée), una stanza ‘da serva’, ricavata nel cortile interno del palazzo: una barriera a vetri si frappone fra lo spettatore e gli attori, come se chi guarda, spiasse gli avvenimenti oltre una finestra.
Elettra è oltre i vetri: con i vestiti logori e sporchi, la chioma spettinata e le mani intrise di terra, consumata da un senso di vendetta che non riesce a compiersi, ossessionata dal ritorno del fratello che qualcuno giura perfino essere morto; ma non solo, oltre i vetri e in contrapposizione è anche Crisotemide (Moira Grassi), disposta a cancellare il massacro familiare per la propria femminilità, e Clitennestra (Maria Grazia Mandruzzato), non vittima della passione, dell’istinto, ma consapevole, mostruosamente razionale anche nella tangibile rivalsa emotiva verso la figlia.
Gli attori perciò agiscono all’interno di uno spazio isolato, senza vedere il pubblico ma, soprattutto, senza udire ciò che esso sente in cuffia: come se si trovassero in una ‘sorta di incubo’, lontani e vicini allo stesso tempo agli spettatori.
Durante un’intervista agli attori, ho appreso quanto il celebre caso del massacro di Novi Ligure avesse impressionato il regista: non a caso, infatti, Oreste (Gabriele Benedetti), uccide Clitennestra pugnalandola con tragica insistenza. Simili eventi di cronaca, a noi certo più vicini temporalmente, ci obbligano ad una riflessione sull’attualità del mito, sull’infrazione – in un certo senso- del rapporto tra vita e scena. Oreste sorprende la madre alle spalle e la colpisce con tutta la brutalità di cui è capace: lo spettatore soffre, percepisce il dramma di un nucleo distrutto, di un vulnus che non può rimarginarsi, di una morsa che si stringe. “E’ l’uomo” -sottolinea Maria Grazia Mandruzzato- “che serve alla tragedia, non il contrario”, sottolineando chiaramente come toccare il personaggio tragico significhi elevarlo, sublimarlo.
L’operazione ha riscosso meritati consensi già a Napoli e a Torino, oltre al Premio Girulà 2005 per la migliore drammaturgia dello spettacolo e al Premio Speciale Ubu 2005 per Hubert Westkemper, solo per citarne un paio: il dato può fornirci una misura sulla capacità del mito classico di attraversare secoli di riletture senza tuttavia perdere la propria efficacia e una sorta di naturale capacità a generare sempre nuove questioni.
Uno spettacolo intenso, ricco di spunti, coraggioso anche nella gestualità interpretativa che risulta piuttosto accentuata soprattutto nel rapporto tra le due sorelle, tesa a rimarcare la loro diversità, sottolineata ulteriormente nei costumi e nel loro gioco cromatico (Ursula Patzak). Secondo la stessa ricerca all’essenzialità, sono ricreate le scene (Raffaele Di Florio) che riproducono l’interno di una stanza-grotta in cui Elettra è confinata e le musiche (Giorgio Mellone), che non subordinano mai l’importanza delle voci e dei rumori.
Operazione dunque per chi sia interessato al mito ma, ancor di più, per chi volesse avvicinarsi ad esso.
ELETTRA
di Hugo von Hofmannsthal
un progetto di Andrea De Rosa e Hubert Westkemper
con: Frédérique Loliée (Elettra), Maria Grazia Mandruzzato (Clitennestra), Moira Grassi (Crisotemide), Gabriele Benedetti Oreste
regia di Andrea De Rosa