Presentato a Locarno lo scorso anno, osannato agli European Awards e agli Oscar Europei di Berlino, “Asterión” approda all’Edera Film Festival 2024, con una potenza narrativa ed estetica che colpisce visceralmente lo spettatore.
Dopo “Animata resistenza” (2014) e “Brotherhood” (2021), il regista Francesco Montagner ci propone un’opera che si può considerare una vera e propria opera d’arte, fatta di minuziosi quadri che investigano e sezionano attentamente gli elementi della narrazione.
“Asterión”, girato in 16mm con una cinepresa Bolex che tanto ricorda il cinema sperimentale di Stan Brakhage, muove i suoi passi dal racconto “La casa di Asterión” di Jorge Luis Borges. Recuperando il mito del Minotauro, lo scrittore argentino – fedele alla sua poetica – ribalta la tradizione, rappresentando il mostro come un animale antropomorfo rinchiuso nella sua prigione labirinto e condannato alla solitudine. La ferocia “classica” (nella sua doppia accezione) lascia lo spazio ad un turbamento esistenzialista che abita il Minotauro, il quale diventa simbolo della condizione umana destinata all’incomunicabilità e alla solitudine.
La fascinazione verso questo ribaltamento del mito, ad opera di Borges, porta il regista Francesco Montagner alla messa in scena di un testo filmico che ribalta esso stesso le regole di genere – di forma e di sostanza – a cui lo spettatore è abituato, abbracciando una macchina da presa a manovella. Con un’autonomia di venti secondi a girato, il regista s’inabissa tra le pieghe del cinema documentario stravolgendone le regole, mescolando la realtà con la finzione, il vero con il mito, il testo-immagine con il testo-parola. Dall’ibridazione di questi elementi nasce un testo filmico, privo di qualsiasi suono che, attraverso la vividezza entomologica dell’immagine, urla il dolore del protagonista che da toro prigioniero all’interno di un’arena diviene corpo inanime pronto ad essere lacerato e ricomposto dalle mani di un attento tassidermista. È in questo dialogo che si viene a creare tra animale-uomo, morte-vita, che il registra racchiude l’essenza del testo letterario: il regista recupera l’idea di doppio presente nel libro dello scrittore, incarnandolo nella figura del tassidermista che, mentre accarezza il corpo morto dell’animale, cerca di assumerne le sembianze, divenendo il doppio dello stesso. Un altro Asterión con cui dialogare e su cui rispecchiarsi. Questa identificazione e desiderio di assunzione dell’altro su di sé abitano la seconda parte del corto. Qui, l’occhio della macchina da presa si muove dal corpo animale a quello umano, il quale affonda nella pelle del toro, nella sua carne, quasi a volersi sostituire a lui in una sorta di trasformazione e di riappropriazione dell’animo più selvaggio. Le velocissime immagini che interrompono la narrazione principale mostrano un corpo d’uomo con una testa taurina: un Minotauro come raffigurazione del desiderio inconscio a cui l’umano aspira, le cui pratiche da tassidermista cercano di concretizzare attraverso la commistione tra i due corpi.
Nei suoi quindici minuti “Asterión” travolge gli spettatori interrogandoli sulla loro natura e folgorandoli attraverso una fotografia straordinaria e un silenzio che nel suo dire può e deve dis-turbare.