C’è anche lo zampino di un nome ingombrante come quello di Martin Scorsese  (in veste di produttore esecutivo) dietro a Diane,  il film drammatico americano presentato in concorso al 70° Locarno Film Festival. Debutto nel genere narrativo per il documentarista ed ex critico cinematografico Kent Jones (autore di un documentario molto fortunato al botteghino, cosa non scontata per il genere, vale a dire Hitchcock/Truffaut), Diane racconta le vicende di una donna non più giovane nel mezzo di un momento difficile della sua vita e il suo rapporto con la morte.

La Diane del titolo (interpretata da una caratterista solida come Mary Kay Place, di fatto al suo primo ruolo da protagonista dopo quarantacinque anni di carriera) è una casalinga vedova e sola, che divide le giornate tra il volontariato in una mensa per poveri, l’assistenza alla cugina Donna, malata terminale, e le visite al figlio tossicodipendente, nel tentativo di farlo tornare in disintossicazione. Il tempo che le rimane lo passa tra zie, cugini, amici e parenti, tutti in modo diverso interessati dai problemi di salute, o che comunque non sembrano interessati a parlare d’altro.  Una serie lutti e cambiamenti improvvisi trasformeranno radicalmente la mesta routine di Diane, portandola a riflettere su alcuni episodi della sua vita passata.

Al di là di quello che può emergere da una sinossi simile, Diane riesce ad essere molto di più di un buon film sulla paura della morte, ed è proprio questo il suo pregio principale. Per fare un esempio di quei piccoli particolari che rendono il film qualcosa in più rispetto a un buon dramma, la spirale ascendente di morti e disgrazie che colpisce Diane da circa metà del film in poi è resa con un ritmo tale da rendere il tutto quasi grottesco, al limite del surreale, come se Jones avesse deciso di privare man mano il personaggio della protagonista di tutti i suoi conoscenti, di tutte le sue preoccupazioni e di tutte quelle persone di cui deve prendersi cura, costringendola così a restare da sola in un forzato e drammatico confronto con sè stessa.

Un altro particolare a cui Jones sembra aver dedicato una cura maniacale (e in questo si vede anche l’influenza di Scorsese, che sull’importanza dei particolari ci ha costruito una carriera) è l’attenzione nel ricostruire un ambiente che rispecchia in modo impeccabile sia il mood della protagonista che i temi della narrazione, uno sfondo perfetto fatto di tavole calde quasi deserte, case dall’aria non vintage ma semplicemente vecchio, nelle quali si muovono con una certa difficoltà anziani dall’aria mesta e rassegnata, avvolti in camicie di flanella e maglioni invernali. Tra questi vecchietti intristiti spicca Diane, disincantata e arzilla zia di Diane incredibilmente abituata alle sofferenze, quasi da sembrare disinteressata, interpretata magistralmente dalla novantunenne Estelle Parsons (“una forza della natura, giravamo per ore fino a notte fonda ma lei aveva la resistenza di una donna di trent’anni più giovane”, ha detto di lei la Place in conferenza stampa).

Mentre la fotografia contribuisce a restituire questo senso di angoscia e noia, la regia si limita a fare il suo dovere, con qualche piccolo virtuosismo e qualche sbavatura, entrambe cose del tutto prevedibili in quella che di fatto è un’opera prima. A dare un solido contributo è anche il montaggio, sia dal punto di vista logico che da quello tecnico. Grazie a questo sguardo attento su una serie di particolari e aspetti diversi, Diane è un film che nella sua apparente semplicità riesce a elaborare in modo originale un tema visto e rivisto sul grande schermo.