Il pacioso e generoso Mario (un grande Stefano Fresi) vive a Roma, gestisce con la mamma una ferramenta e ha l’inno della Roma nella suoneria del cellulare. Un giorno riceve una telefonata dal Veneto: un avvocato (Roberto Citran) lo avverte che suo fratello Dario (un non meno immenso Giuseppe Battiston) è accusato di incendio doloso al campo del vicino e rischia la galera o il manicomio, a meno che qualche parente non si occupi di lui.

I due sono fratelli di madri diverse e di un padre che ha abbandonato entrambi in tenera età senza più dare notizie di sé. Ognuno di loro ha in diverso ricordo del padre: Dario lo ha mitizzato mentre Mario lo ha più realisticamente inquadrato come sostanzialmente un fallito. Quasi identici nella corpulenza dell’aspetto, i fratelli si erano incontrati solo una volta, da bambini, ma da allora era calato il silenzio.

Ora però in Mario si accende una scintilla di nostalgia e d’isitinto raggiunge Dario, che vive in una casale isolato nella campagna veneta ed è considerato da tutti un mezzo matto: “Luna storta” è il suo soprannome; il suo chiodo fisso, infatti, è la luna, fin da quando da bambino vide in televisione il primo uomo che ci mise piede e che da sempre lui stesso vuole emulare.

L’incontro – scontro tra i due è una struggente e intensa metafora del confronto tra due mondi, due mentalità, due filosofie di vita: i sognatori che provano a cambiare il mondo, anche a costo di rischiare molto, tutto, e i pratici, che si accontentano di tirare avanti ma che alla fine applaudono. Eppure più i fratelli si conoscono e più si sentono uniti e si rendono conto di aver bisogno l’uno dell’altro per realizzare se stessi. Sensibile è anche lo sguardo su come reagiscano le persone (che siano fratelli, genitori o amici) vicine a chi ha un sogno così grande che è nello stesso tempo profondamente generoso e crudelmente egoista.

La vicenda si snoda tra gag comiche e sentenze serie, tra malintesi e comprensioni, via via che si approfondisce la caratterizzazione dei protagonisti e anche la definizione di quel mondo che non è più rurale ma non è nemmeno altro, talvolta arricchito in fretta senza la ricchezza della consapevolezza di sè. Un mondo avvolto di nebbie padane, metafora di una nebbia interiore, dalla quale il “matto” Dario deve uscire, a costo di osare l’impossibile.

Il film scorre rapido, intenso, senza nulla di superfluo, con l’affettuoso sguardo di chi quelle terre le conosce bene, le ama profondamente e (come il compianto Carlo Mazzacurati) sa come raccontarle per farle amare allo spettatore. Ma si ama anche l’ingenua follia rappresentata da Dario tanto quanto la generosa bonomia del più concreto Mario. Si comprende lo sguardo ironico di sufficienza dei paesani e la rozza volgarità dell’arricchito, personaggi che sono parte essenziale della sfaccettatura del racconto.

Il regista trevigiano Antonio Padovan, ad appena trentaquattro anni, ha già dato prove di grande valore, sia nel cinema, sia nella pubblicità ed è molto apprezzato anche negli Stati Uniti. Dopo il successo del suo primo lungometraggio (Finché c’è Prosecco c’è speranza, tratto dal romanzo di Fulvio Ervas) ci è cimentato ora anche nella stesura del soggetto (realizzato insieme con Marco Pettenello, già autore di film con Carlo Mazzacurati), con questa originale  pellicola di rara sensibilità e profondità che è l’unico film italiano presentato in concorso al Torino Film Festival 2019. Alla kermesse torinese entrambi i protagonisti, Giuseppe Battiston e Stefano Fresi, hanno ottenuto il premio per il miglior attore.