Si può dire che Memorie di Atlantide sia il lavoro più personale di Giovanni Dell’Olivo. Il cantautore e polistrumentista, già autore di Kociss, dedicato al leggendario bandito veneziano, e di Addio a Ulisse, per citare soltanto gli ultimi due tasselli della sua produzione, ha da tempo scelto la scena come ambito privilegiato in cui dare vita al suo stile peculiare, un teatro-canzone di grande impatto emotivo e di altrettanto raffinata matrice intellettuale. Mentre negli spettacoli precedenti la narrazione si affidava appunto a icone di un’epoca che non esiste più, come i mitici anni Settanta, oppure a figure archetipiche come il figlio di Laerte, sotto le quali poter celare agevolmente la propria soggettività, questa volta lo spunto autobiografico è scoperto sin dall’incipit: «Era un’estate di molti anni fa, nel Mediterraneo, quando ho fatto la mia prima immersione subacquea, quasi per gioco. Pensavo, una storia in più da raccontare dopocena agli amici! E invece, quel gioco mi ha cambiato la vita».
Questa partenza quasi intima in realtà è solo l’inizio di un viaggio immaginifico che racconta una sommersione, lo sprofondare nei flutti di un’età dell’oro, dove l’acqua è assoluta protagonista. Si narra del mito di Atlantide, luogo di fertilità e concordia dove gli abitanti erano ermafroditi, nascevano sirene e con il tempo si trasformavano in tritoni, le une e gli altri rispettivamente portatori di caos e raziocinio, eterni opposti che si alternavano in un ciclico disegno ideale. Come ideale è l’immaginaria diaspora delle sirene, che nel loro andare toccavano le «terre lambite dal mare, da Bruges a Sete… da Atene a Lisbona… da Venezia a Leuca», coordinate geografiche e simboliche assai care al compositore, che come di consueto firma testi e musiche. Questo equilibrio – che prevedeva anche l’ospitalità e il fertile incontro con i ‘senza branchie’, vale a dire gli esseri umani, che arrivavano ad Atlantide dal mare – come sottolinea il titolo stesso dell’opera appartiene al passato, a prima della sommersione. È lo stesso tritone-Dell’Olivo – che della mitologica figura acquatica assume anche i connotati grazie alla magnifica maschera-protesi in silicone ideata ad hoc per lui da Anna Ave – a spiegarlo: «Nel silenzio delle profondità marine riaffiorano a galla della mia coscienza i fantasmi di un mondo oggi scomparso, sommerso per nostra propria mano. Non certo la mia personale mano, o la tua o la sua; ma la nostra mano, la mano che non è il termine del braccio di nessuno in particolare, la mano invisibile che tutti accomuna e tutti separa, che assolve ciascuno e contemporaneamente condanna tutti. La mano che si è fatta artefice del castigo divino, la sommersione del nostro piccolo amato universo, sospeso, in una concrezione di salsedine, fra la terra e il mare». Sommersione come evento esiziale di un’era felice cui contribuisce la paura, il sospetto, l’egoismo, infine l’indifferenza e l’odio verso chi arriva da un altro luogo.
L’allegoria che collega Atlantide a Venezia, città dove l’autore è nato e risiede, è resa esplicita da uno dei versi, «Venezia, mia Atlantide in sogno», ma, anche senza quel riferimento puntuale, è facile scorgere le analogie tra due civiltà – una fantastica, l’altra reale – che si sono scontrate contro la propria involuzione e il proprio avvitamento in se stesse. Memorie di Atlantide non ha però una lettura univoca che può riassumerne i molteplici riferimenti. A ciascuno, sembra dire Dell’Olivo, il compito di rintracciare la propria città sommersa…
Lo spettacolo è recentemente andato in scena al Teatrino Groggia, una piccola cattedrale nel deserto al centro del sestiere di Cannaregio, che il direttore artistico Mattia Berto guida con intelligenza, ed è stata la seconda rappresentazione, dopo il debutto assoluto lo scorso giugno a Brugine nell’ambito del festival Scene di Paglia. Lo spazio chiuso ha permesso di apprezzare meglio che nella prima occasione il lavoro teatrale che accompagna da anni la fantasia creativa di Giovanni Dell’Olivo, divenendone sempre di più una componente essenziale. In primo luogo per la presenza, accanto al tritone-mattatore, di due sirene come Arianna Moro e Serena Catullo. La prima è l’interlocutrice privilegiata dei dialoghi, spesso spassosi e dissacranti, che compongono una discreta parte dei recitativi. Bravissima, mescola parola, canto e giocoleria in un impasto assolutamente convincente, che fa il pari con le azioni sceniche ideate dalla regia a quattro mani della stessa Moro insieme a Vito Lupo, cui si devono in gran parte le invenzioni scenografiche, efficaci anche in uno spazio piuttosto limitato come il Groggia a evocare profondità marine, onde mosse dal vento, ma anche inquietudini interiori e momenti infantili come ogni età dell’oro pretende. La sirena-Serena Catullo, professionista che spazia dalla musica antica al contemporaneo, si muove perfettamente a suo agio nello spazio scenico (mirabile il duetto con la Moro nell’indossare la ‘maschera della peste’, quella utilizzata dai medici veneziani durante le epidemie, a simboleggiare un contagio più spirituale che fisico, tema molto attuale in questi ultimi tempi), ma soprattutto canta, con una voce che chiunque vorrebbe a interpretare le proprie canzoni.
Dal punto di vista musicale, la dozzina di brani (più il bis), sono come si diceva tutti opera di Dell’Olivo, anche quando traduce e riarrangia Le plat pays di Jacques Brel, e offrono una vasta gamma di sonorità e suggestioni. Tra tutti, se ne citano almeno due, il toccante Eterno villeggiante, dedicato a Bernardo Cinquetti, cantautore parmigiano recentemente scomparso (cui in realtà è dedicato l’intero spettacolo), e L’Occidente (Ya habiby arab laya), uno struggente canto di lontananza che rappresenta forse la climax emotiva di tutto il lavoro. Sul versante strumentale infine, oltre al protagonista (abile a sdoppiarsi tra le melodie cantate e uno stile piano e brillante nelle parti parlate, che conferma una ormai acquisita maturità anche sul piano della recitazione), che alla chitarra alterna il bouzouki, il sodalizio ormai pluriennale con il Collettivo Lagunaria permette un’interpretazione impeccabile dei musicisti, a cominciare da un intellettuale del contrabbasso come Alvise Seggi e senza dimenticare i virtuosismi di Stefano Ottogalli alla chitarra e Walter Lucherini alla fisarmonica.