Letizia Russo è una delle più importanti e affermate drammaturghe (non solo) italiane, pubblicata giovanissima dalla Ubulibri di Franco Quadri nella prestigiosa collana dei Testi. A pièce di grande impatto e perfetta rifinitura come Tomba di cani, Primo amore, Binario morto e Dare al buio (per citarne solo alcune) affianca un enorme lavoro di riscrittura, attingendo in modo onnivoro dalla grande letteratura, drammatica e non (basti qui citare l’imponente lavoro su Guerra e pace di Tolstoj). A questo secondo ambito sembra appartenere Mentre fuori infuria, andato in scena in prima assoluta al festival Scene di paglia (che ne è anche coproduttore insieme a Casamatta Producimenti d’Arte e NIM) il 3 luglio scorso. Grazie all’incontro che precede l’allestimento, apprendiamo che l’elaborazione ha avuto luogo durante la forzata ‘reclusione’ del passato lockdown, e proprio a partire da quell’esperienza ‘straordinaria’ nasce l’interesse per la vicenda delle Mineadi, narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 1-415). Le tre figlie di Mineo sono le uniche in tutta Tebe a non voler offrire il tributo orgiastico dovuto a Dioniso, che infuria fuori dalla loro casa con la sua processione di Baccanti. Chiuse tra le loro quattro mura (e questo è un riferimento puntuale alle condizioni in cui questa riscrittura è stata creata) le tre si raccontano miti di trasformazione, tra cui quello crudele del tragico amore tra Piramo e Tisbi. La Russo, però, sostituisce questa narrazione con quella che vede protagoniste l’invidiosa Atena e la giovane Aracne, che osa competere con la dea nell’arte di tingere la lana (il racconto si trova in Metamorfosi, VI, 1-145). Sia le tre ‘timorate’ sorelle che l’ardita fanciulla soccomberanno alla potenza vendicativa degli dei, che come al solito hanno la meglio, venendo trasformate rispettivamente in pipistrelli e in ragno (come il nome stesso Aracne suggerisce). L’operazione drammaturgica è come al solito felicissima, e si concentra su un ‘fuori’ di ebbrezza e sfrenatezza contrapposto a un ‘dentro’ di operosa morigeratezza, minato dalla paura e dallo sgomento per quanto avviene all’esterno. Una metafora perfetta della precarietà cui siamo stati tutti sottoposti.
Lo spettacolo restituisce queste atmosfere con rara forza e chiarezza. L’indovinata regia di Alvise Camozzi colloca gli spettatori, disposti a cerchio, in un boschetto del Casone Ramei, a Piove di Sacco: in quest’ambiente agreste e buio (l’inizio è previsto al calare del sole), i tre attori – lo stesso Camozzi, Valentina Brusaferro e Matteo Cremon – sono dislocati in tre diverse postazioni, immobili nel loro ‘dire’, più che recitare, una vera e propria partitura (amplificata dagli altoparlanti) in cui si sdoppiano e si alternano agevolmente nelle tre testarde e sfortunate sorelle e nella voce possente e terribile di Dioniso. La spazializzazione del suono riesce a mantenere intatta e vigile l’attenzione dall’inizio alla fine. Attraverso un semplice ed efficace gioco di luci (a cura di Stefano Piermatteo) le situazioni e le inquietudini che si susseguono prendono vita grazie anche al fondamentale lavoro sonoro e al live electronics di Andrea Santini. Ci si trova disorientati, immersi dentro un mito metamorfico che ha molto a che fare con la nostra contemporaneità. Il rigorosissimo lavoro degli attori (o per meglio dire delle voci) permette di comprendere ogni minimo dettaglio, anche quando le parole sono sospese o frantumate, come note di uno spartito. Un’esperienza intensa e totalizzante.