La sezione Orizzonti della 74° Mostra del Cinema di Venezia ritorna a ospitare Vahid Jalilvand dopo due anni, quando l’iraniano presentò Wednesday, May 9th nel 2015.

Nariman, anatomopatologo rispettato e uomo tutto d’un pezzo con un organizzato piano di vita ma improvvisamente ha un’incidente e investe un bambino di otto anni. Questi muore il giorno dopo, e Nariman dovrebbe eseguire l’autopsia, ma è sconvolto dalla verità che potrebbe svelare: è stato lui a stroncare la vita del ragazzo o un’intossicazione pre-esistente?

Jalilvand insiste dunque sui dilemmi emotivi e sulla paura della verità e sui sogni, tematiche a lui usuali, ma questa volta l’opera è caricata di rabbia, del rimpianto per un futuro sognato che non ha trovato basi sufficientemente solide per avverarsi. L’incidente è il punto zero della vicenda: non contano tanto la dinamica degli eventi o le conseguenze dirette, al punto che il senso di colpa interessa poco a Jailvand, pur essendo la reazione primaria del dottore. Il cuore pulsante dell’opera è il bivio. In sostanza non è tanto il rimorso che blocca Nariman quanto la possibilità di scoprire che è stato davvero lui, pur con la garanzia che la sua azione non sarà perseguita legalmente, a meno di una confezzione diretta. Il peccato del protagonista (così come quello del regista e di tutti gli uomini, secondo lo stesso) è quello di non avere coraggio d’affrontare alla verità; la questione tuttavia è affrontanta in maniera molto lontana rispetto alla banalità che evoca l’immagine dell’uomo dinnanzi al Vero.

Jalilvand infatti indugia sulla vigliaccheria, sulla debolezza del dottore come uomo con tutte le certezze che però è lo stesso timoroso dinanzi a uno eventi decisivo del genere, nonostante la piena consapevolezza del fatto che non ci saranno conseguenze empiriche, ovvero l’unica cosa che importa al tipo d’uomo che è Nariman: piccolo e insignificante non può fare altro che tremare impaurito, disposto a tutto pur di fuggire. L’autore iraniano compassa lentamente gli spazi vuoti che offrono un asilo claustrofobico ai personaggi con movimenti di macchina misurati che dilatano all’inverosimile io tempo degli impasse che spadroneggiano i tempi narrativi dell’opera. Quella di Jalilvand è una sorta di elegia alle scelte sbagliate, delle elocubrazioni sulle conseguenze che potrebbe aver avuto il risolvere un dilemma nella maniera opposta a quanto fatto in passato. Forse qui un po’ scade, non valutando il flusso degli eventi come sottoposto alla Grazia, rintanandosi leggermente in un antropocentrismo più borghese di quanto il film non voglia essere; anche se, fatta eccezione per qualche sbandata naïf, il discorso sull’uomo come e e l’uomo come si sognava rimane, al netto di tutto, abbastanza interessante e portata avanti con decisione.

In conclusione, No date, no signature riesce a mantenere in equilibrio tutti i discorsi che porta avanti, dalla disamina psicologica del suo protagonista fino alla parte più thriller, il tutto danzando sull’orlo dello smielato ma senza caderci e soprattutto con l’abilità di trasmettere la forza emotriva dietro di sè con semplicità. Sebbene la sua filmografia conti appena un paio di film e null’altro, chi scrive è sicuro che Jalilvand possa già considerarsi un autore in piena regola, al cui futuro andrebbe prestata molta attenzione nei prossimi anni.