Leggere I Cani di Riga, per la generazione dei trentenni di oggi, è come farsi raccontare dalla propria madre il proprio primo giorno di scuola: si affronta qualcosa che effettivamente è accaduto, di cui magari si ha un vago ricordo, e che giace lì, nella nebbia imprecisa della memoria, riportando indietro sensazioni, più che fatti.
Perché I Cani di Riga, secondo romanzo della saga che fece famoso l’ispettore Kurt Wallander e con lui il suo autore Henning Mankell (la cui trasposizione televisiva vede protagonista Kenneth Branagh, in Italia trasmessa dalla Rai), è soprattutto un tuffo negli anni del declino dell’Unione Sovietica, in quel clima politico di assoluto disordine, euforia e sospetto all’indomani della caduta del Muro di Berlino.
I cani di Riga sono i suoi poliziotti e i suoi politici corrotti all’alba del 1990, anno della dichiarazione di indipendenza della Lettonia dall’Urss. Trame ancora vive di un sistema che sta ufficialmente morendo, ma che continua nel buio a reggere le redini di un paese, i cani sono il substrato che impedisce, nel romanzo di Mankell, il vero distacco della Lettonia dal suo passato.
Il libro , scritto nel 1992, è un giallo, e per questo non se ne dirà la trama: basti sapere che lo svedese Wallander si ritrova a investigare su due cadaveri spinti dalla marea sulle coste della Svezia (una Svezia fuori di stereotipo: malinconica, egoista e governata dall’imprecisione), ma le indagini lo porteranno fin dentro alle stanze del potere e della crudeltà sovietica. Saranno mille le occasioni per l’ispettore di rinunciare all’investigazione; potrebbe chiudere qualche occhio, soprattutto quelli della sua coscienza, e far archiviare il caso dalla polizia lettone. Ma, da uomo inquieto qual è (e non a caso proprio L’uomo inquieto è il titolo dell’ultimo romanzo della serie) non potrà rinunciare, perché questo vorrebbe dire mettere a tacere il suo senso della giustizia, così come anche la voce della donna della quale vorrebbe non innamorarsi.
Ma, si diceva: leggere questo libro per chi ha trent’anni oggi, dal punto di vista emotivo è come andare a riattivare nella memoria sensazioni lontane ma chiare. I fatti la storia ce li ha insegnati, la razionalità della cultura ha fatto il suo dovere istruendo i cittadini di oggi (speriamo). Ma questo romanzo riattiva una serie di input diversi dal sapere razionale: ricompaiono alla mente immagini dei telegiornali, discorsi degli adulti dell’epoca, timori culturali. Comunisti e capitalisti. Mac Donald e la Lada. I Cani di Riga, oltre a dipingere un personaggio intrigante come Wallander – che è talmente antieroe e talmente stanco della sua vita che fa pure domanda per cambiare lavoro – regala sulla carta un viaggio in una città sbriciolata, misteriosa, ostile, fredda, cupa e violenta. Regala un tour in soggettiva dentro alla vita quotidiana all’epoca del terrore sovietico, del doppiogioco, del sospetto ad ogni costo, pena la vita – e in questo basterebbe affidarsi le descrizioni della città che la penna di Mankell crea per il lettore. I Cani di Riga, infine, regala una visione di una parte di mondo declinata all’interno dei singoli personaggi, dei vissuti personali, del coraggio di chi ha lottato, e di chi ha perso le sue battaglie per la verità.
Henning Mankell, I Cani di Riga, Marsilio Tascabili, 2010, pp. 312, euro 12,50