Karlovy Vary 2006: fra Sundance e Cannes

Per chi non la conoscesse, premettiamo che la cittadina ceca di Karlovy Vary, a pochi chilometri dalla frontiera con la Germania, rientra quasi per antonomasia nella categoria urbanistica per la quale si può spendere senza indugi l’aggettivo “ridente”. Anzi sembrerebbe quasi che tale termine sia stato coniato proprio qui da qualche viaggiatore ottocentesco incantato dai colonnati degli stabilimenti termali e dalle facciate multicolori delle due linee di palazzi ed hotel costeggianti il fiumiciattolo che unisce idealmente da un capo all’altro le varie sale cinematografiche in cui si svolge il festival più rappresentativo della Repubblica Ceca. E diremo di più, il “Karlovy Vary International Film Festival” si propone anzi a nostro avviso come una delle proposte meglio equilibrate e più funzionali dell’intero continente: ad un penchant mai smarrito per la produzione dell’Est Europa gli organizzatori (con in testa la decana dei critici cinematografici cechi Eva Zaoralova) hanno ormai affiancato con stabilità e continuità invidiabile un’attenzione alla produzione americana, hollywoodiana o indipendente che sia, di modo che accanto a una scelta di film “dell’Est Europa” (uniti nella sezione rappresentativa “Ad est dell’ovest”) e alla intera produzione ceca dell’anno vediamo sfilare i migliori film del cinema autoriale USA e mondiale, con tanto di “stars e directors” al seguito.

Lungi dall’infognarsi in logiche provinciali o localistiche gli organizzatori cechi hanno quindi ben capito che l’attenzione internazionale non si conquista solo sperando in un nuovo “Kolja” (premio Oscar ceco più di dieci anni fa) o in improbabili hit da botteghino girati da artisti delle cinematografie europee emergenti, ma facendosi conoscere, logisticamente ed artisticamente, proprio da produttori e attori dello star system che conta, senza per questo chiudere le porte alle produzioni emergenti o minori. Se di qui sono passati negli ultimi anni gli ancora poco conosciuti Leo Di Caprio, Keira Kneightley, Gael Garcia Bernal etc…ora continuano ad essere ospitati con continuità impressionante e non casuale i nomi più altisonanti del mondo della celluloide e i giovani di belle speranze: quest’anno Andy Garcia ha presentato qui il proprio esordio dietro la mdp (The Lost City), Terry Gilliam ha confermato con la sua ennesima presenza il suo amore per il paese boemo e Robert Redford (l’anno scorso era qui ospite d’onore insieme a Sharon Stone e Matt Dillon) ha dimostrato un’intesa tutta speciale con il festival della cittadina termale, sponsorizzando un gemellaggio a due teste: fra le sezioni collaterali più interessanti infatti spiccavano quest’anno un omaggio ai film segnalatisi nel suo Sundance e una scelta dei documentari sponsorizzati appunto dal Sundance Documentary Fund. Fra le altre sezioni poi non si dimentichino il “Forum degli indipendenti” e gli “Orizzonti”, dove è possibile rivedere il meglio del cinema mondiale già passato negli altri festival (fra gli altri i film di Panahi, Altman, Sorrentino, Moretti, della Zbanic vincitrice di Berlino 2006 etc…). Dunque non solo i nomi sicuri della cinematografia di massa, ma anche una costante scommessa sull’indipendenza autoriale e un’imprescindibile opera di divulgazione per il pubblico ceco (qui rimpolpato da schiere infinite di ragazzini e giovani appassionati con zaini e sacchi a pelo).
L’impressione è quasi che Karlovy Vary sia indeciso se diventare davvero il Cannes dell’Est (come è più volte già stato definito) o piuttosto il Sundance d’Europa…Ad ogni modo, ad ulteriore testimonianza dei sicuri progressi fatti dalla presente direzione (che, ricordiamolo, ha letteralmente resuscitato quella che negli anni ’70 e ’80 era più o meno una manifestazione vetero-sovietica) quest’anno l’ormai affermato Kim Ki-duk ha scelto proprio Karlovy Vary per la prima mondiale del suo Time, mentre è ormai un appuntamento classico la sezione di film scelti dai critici di “Variety”. Per dirla in breve: non è certo quello che si dice un festival isolato o sconosciuto “a chi conta”.

Se le rassegne collaterali ed il programma in genere hanno confermato una ricchezza non ipertrofica e buona varietà di proposte (due segnali inequivocabili della salute di un festival) una nota non totalmente positiva è venuta forse dal concorso, che non ha presentato veri e propri grandi film e si è invece leggermente disperso fra opere buone ed un po’ meno buone. Il Globo di Cristallo per il miglior film ad ogni modo è andato ad un buon esempio di cinema indipendente americano, Sherrybaby della regista del New Jersey Laurie Collyer. Questa storia di disagio sociale e di parziale riscatto personale è tutta incentrata sulla interpretazione a pelle della brava Maggie Gyllenhaal, che con la sua Sherry, madre un po’ sbandata che cerca di riconquistare la fiducia e l’affetto della piccola figlia, ha inoltre conquistato il premio per la migliore interpretazione femminile. Il personaggio della Gyllenhaal si muove sullo schermo come elemento animale ed istintivo, pronta a regalare il suo corpo per raggiungere i propri obiettivi ma anche a graffiare chiunque le voglia impedire un ritorno alla normalità dopo la prigione. Un film a tratti intenso, anche se non proprio eclatante per qualità estetiche, ma che nonostante l’argomento non scade nel patetico e nei cliché.

Il premio per la regia è invece prevedibilmente andato ad una sorta di enfant terribile scandinavo, che già con il solo nome aveva attirato una certa attenzione, Joachim Trier. Il giovane regista di reclame (nato a Copenaghen, poi cresciuto fra Oslo e Londra) dichiara di essere in effetti lontano parente dell’eccentrico Lars, ma il suo cinema sembra promettere meno stranezze cult e potrebbe continuare a muoversi invece in un’atmosfera di libertà vagamente nouvelle vague: la storia di due ragazzi che sognano di diventare grandi scrittori illustrata in questo suo esordio Reprise è infatti permeata da un umore dolce-amaro da gioventù ribelle e da una giocosa sfacciataggine registica che in futuro dovrebbe forse essere leggermente regolamentata per non essere fine a se stessa: troppi flash –back e –forward e continui cambi di focalizzazione alla fine stancano e disorientano. Ma almeno è un regista che promette di non annoiare.
Chiudiamo con una veloce carrellata sui premi maggiori ricordando che il premio speciale della Giuria è andato ex-aequo a un film bulgaro a episodi (Christmas Tree Upside Down della coppia Ivan Cerkelov-Vasil Zivkov) e al rappresentante di casa, il praghese Jan Hrebejk, con il suo sesto lungometraggio Beauty in Trouble. Il primo è un lento e sfaccettato apologo sulle tristezze e le gioie comuni dell’esistenza umana, che si bilancia con risultati non sempre ugualmente convincenti sui talenti complementari dei due registi (uno è un documentarista, l’altro un autore di film di fiction). Dei sei racconti che lo compongono, intervallati dalle immagini quasi surreali di un gigantesco albero di Natale trasportato lungo le strade di Sofia (da cui il titolo), rimane impresso forse il più esotico e al tempo stesso il più concreto: quello in cui Cerkelov e Zivkov raccontano a modo loro le ultime ore di vita di Socrate prima di bere la cicuta. A dire il vero, non si capisce cosa abbia a che fare con l’albero di Natale del titolo, ma è un episodio bello e straniante…Il film ceco di Hrebejk invece è una storia di sentimenti un po’ consolatoria che si svolge fra Praga e la Toscana, luogo in cui i cechi del film sembrano riuscire a rigenerarsi e a diventare “più buoni”. A parte il cromatismo da cartolina delle colline del Chianti, rimane un valore aggiunto del film l’interpretazione del cast, nel quale spicca il veterano Josef Abrham, che interpreta una sorta di ingenuo e ricco benefattore che scopre l’amore e soprattutto scopre appunto…di essere molto ingenuo. Ben fatto (il regista ed il suo staff sono fra gli autori cechi di cinema più professionali e affiatati), ma un po’ furbesco, purtroppo non il miglior lavoro dell’altrove più a fuoco Hrebejk. Per finire, il miglior interprete maschile è stato ritenuto il polacco Andrzej Hudziak, che in Several People, Little Time di Andrzej Baranski dà il volto ad un intellettuale omosessuale della Polonia comunista. Purtroppo la pellicola è incentrata su una vicenda troppo intima e nazionale, basata su una storia vera che non riesce a coinvolgere minimamente lo spettatore digiuno delle vicende letterarie e dell’orgoglio patriottico degli amici polacchi.
Fra le altre, numerose rassegne collaterali ricordiamo gli omaggi a John Huston (era presente suo figlio Danny), le retrospettive dedicate agli ultimi cinque anni di cinema britannico e alla saga Cremaster dell’eccentrico artista marito di Bjork, Matthew Barney. Ma a me fa particolarmente piacere chiudere rammentando il giusto omaggio tributato ad un classico del cinema ceco (cinema che per il resto quest’anno ha piuttosto deluso nel complesso): Jan Nemec, di cui in occasione della consegna del Globo di Cristallo alla sua composita, lunga e intensa carriera è stato presentato lo stupendo ultimo Toyen, biografia stilizzata e affascinante della più importante pittrice surrealista ceca.