“La Tomba di Antigone” di Maria Zambrano

L’avevano rinchiusa sotto terra -ancora viva- perchè aveva osato dar sepoltura al fratello, contravvenendo alla legge del Terrore con una legge più grande, quella dell’Amore.
Lei, Antigone, figlia della colpa, sorella del legittimo re di Tebe, come dell’usurpatore che scatenò la sanguinosa guerra, fino al delitto fratricida.

Il libro della Zambrano -da recitare più che da leggere- parte da questo punto per dar voce alla tragica eroina sofoclea.
Come rivela il titolo, tutta la vicenda si svolge all’interno della tomba in cui Antigone è stata confinata dallo spietato Creonte, uno spazio ristretto che in realtà si dilaterà fino a rappresentare il mondo e la condizione umana (Tutti come me, in esilio, senza rendersene conto).

A differenza della tragedia omonima, qui Antigone non si suicida ma vive.
Vive in un luogo di morte per far sentire la sua voce e raccontarci la sua storia, il suo dramma, per cercare nel suo passato una verità che rimarrà sempre un mistero.
Il tempo indefinito che trascorrerà nella tomba le servirà per “vivere” la sua morte, consumare la sua vita non vissuta e insieme ad essa la tragica vicenda della sua famiglia e della sua città.

Già nelle prime righe veniamo trascinati all’interno della vicenda: la narrazione si svolge in lunghi monologhi della protagonista tra i quali si inseriscono le ombre degli altri personaggi (il padre, la sorella, il fidanzato, ma anche Creonte e un’Arpìa).
Rivivendo il suo passato assieme a loro, Antigone scoprirà che il suo destino era stato segnato fin dalla nascita, una condanna inappellabile per un essere totalmente innocente.
Appaiono le figure della sorella Ismene; del padre Edipo -che ripercorre il suo percorso obbligato verso la dannazione, mèta ineluttabile della sua strada senza scelta che solo ora riesce a vedere- della nutrice Anna, un’ immagine silenziosa che incorniciava la vita di Antigone bambina, simbolo della sua infanzia e della sua innocenza; della madre Giocasta, paragonata alla Terra: una madre nera ma con “viscere di luce”.
Con loro Antigone dialoga, si presta con la sua stessa esistenza ad espiare tutte le colpe, come una vittima sacrificale…. Perché “La verità cade sempre su di me”.
Lei sola può farlo in quanto unico essere puro nella scia di sangue della sua famiglia.
“Sempre alle prese con l’acqua -la ricorda la nutrice- come se all’acqua tu appartenessi”. Antigone pura come l’acqua per lavare qualcosa di impuro.

Compare anche un’Arpìa -personificazione della vendetta- che bisbigliava ad Antigone bambina senza però essere udita.
In questo episodio si radica la dicotomia RAGIONE – AMORE: la Ragione non può comprendere l’amore e le sue leggi. Chi agisce ragionando non segue Amore perché la Ragione frena, controlla, è freddo raziocinio.
L’Arpia infatti viene designata come “la ragionante Arpia”, “ragno del cervello”.

I fratelli si presentano assieme, in uno dei dialoghi più lunghi dell’opera: l’uno -Eteocle- simbolo della Legge, dell’ordine e l’altro -Polinice- icona dell’amore fraterno ricco di tenerezza e speranze, vagheggiante un’idilliaca “città dei fratelli”.
“Fratelli che vivono l’uno della morte dell’altro”, li definisce Antigone.
Lei è l’elemento che li unisce, sorella di entrambi nella carne, ma in realtà di nessuno dei due, come riconosce lei stessa: “Si, sono vostra sorella. Siete però fratelli miei voi due?” Perché lei è diversa da loro, è sola, nella tomba come nella vita.

Il fidanzato Emone è solo un’apparizione fugace, il sogno di ciò che avrebbe potuto essere, una vita felice nel segno dell’amore in un finale che non si può realizzare.

Un elemento di azione è introdotto con Creonte – il giudice, il crudele giustiziere che segue la legge del Terrore- il quale invita Antigone a risalire in superficie, a “rivedere il sole”.
Non è più solo un fantasma che infesta i deliri della giovane, ma un essere in carne e ossa che le offre salvezza e vita.
Ma Antigone rifuta di obbedire perché ciò significherebbe accettare l’autorità di Creonte e la Legge che lui rappresenta.
Antigone ha un atteggiamento sprezzante nei confronti del suo carnefice (“Quel sole non è più mio,seguilo tu”), lo schernisce per i suoi maldestri tentativi di salvare le apparenze per riparare ai danni causati col suo comportamento.
Man mano ci rendiamo conto di quanto sia alto il prezzo che Antigone deve pagare per il suo atto eroico; il rimpianto trabocca nelle parole che consegna a Creonte per l’amata sorella: “dille che viva per me, che viva per quello che a me è stato negato: che sia sposa, che sia madre, amore. Che invecchi dolcemente, che muoia quando giunga la sua ora. Che mi senta arrivare con la violetta immortale, ogni mese di aprile, quando tutte e due siamo nate”.

Nell’ultimo monologo dell’eroina, l’invito per l’umanità a seguire ovunque il proprio cuore anche “dove più si addensano le ombre” senza mai lasciare che si addormenti.

La “morale” della vicenda è esplicitata da due “sconosciuti” che non ci vengono presentati ma che rappresentano il lettore moderno: finchè la storia continua, Antigone avrà vita e voce e noi potremo “avvicinarci di notte” per raccogliere la sua parola nel silenzio, mentre lei cerca “Amore, terra promessa”.

Il testo, nonostante sostanziosi cambiamenti nella trama, rimane fedele nelle tematiche e nell’atmosfera alla tragedia di Sofocle: l’idea di solitudine totale della protagonista, abbandonata anche dagli dèi; il peso della colpa (l’ibris) che perseguita tutte le generazioni fino all’estinzione della stirpe, la connessione tra vedere-non vedere-sapere tipica del mito di Edipo, come quella dell’Acqua come modo di “lavarsi dalla colpe”, purificarsi.

La Zambrano, che da sempre ha dimostrato grande attenzione alla posizione della donna nella cultura occidentale, ci restituisce così un’Antigone intensa, vibrante in una narrazione fluida e incalzante che segue i ritmi della pièce teatrale.
Un’opera che per il suo pathos fortemente drammatico è di sicuro il prosieguo più azzeccato per l’immortale tragedia sofoclea.

La Tartaruga, 2001, 253 pag, 10,50 euro