Orhan Pamuk a “Incroci di civiltà”

Lo scrittore premio Nobel a Venezia per la rassegna letteraria

Una voce profonda che legge in turco un brano che racconta Bellini e il suo Ritratto del sovrano Mehmet II. Uno scrittore che disegna con le sue parole un ponte tra Venezia e Istanbul.

La voce è quella del premio Nobel Orhan Pamuk che il 23 maggio, al Teatro Malibran di Venezia, ha chiuso la rassegna internazionale di letteratura “Incroci di civiltà”.
Pamuk e Istanbul rappresentano un’unica identità. La città millenaria e contraddittoria che vive a cavallo tra Oriente e Occidente (così come lo è stata Venezia), è infatti il luogo che riflette come uno specchio la vita e la storia personale di Pamuk, celebrato in Occidente, autorevolmente riconosciuto dalla moderna società turca, ma incriminato e condannato ripetutamente dal governo del suo paese e da una parte della stessa opinione pubblica turca per il suo impegno civile e le sue dichiarazioni.

Est e Ovest, tuttavia, nelle parole e nella visione di Pamuk non sono due identità in contrasto ma sono invece capaci, come ha affermato lo scrittore, di “stringersi la mano. Perché la cultura è influenza reciproca e non viene da una parte sola”. Nelle pagine dei suoi romanzi la relazione tra Oriente e Occidente rappresenta un filo rosso che l’autore tesse per spiegare e lasciar affiorare il tema del doppio volto (nella sua storia personale e in quella del suo paese): la coesistenza di due spiriti all’interno di un’unica civiltà è per Pamuk non solo fonte di arricchimento, ma rappresenta anche la chiave per comprendere e illustrare la relatività dell’identità.

Le sue opere quindi, da Il mio nome è rosso a Neve passando per Il castello bianco, Istanbul e Altri colori non sono solo e semplicemente opere letterarie, ma diventano anche dei testi sociali e politici, grandi affreschi che rappresentano culture.
La relazione che lega Pamuk alla scrittura è complessa, così come lo sono i suoi scritti, frutto di ricerche meticolose – “sono scrupoloso nei dettagli” ammette – e così come lo è anche il suo carattere: “la scrittura e la lettura sono per me medicine, la cura di cui ho bisogno quotidianamente per la mia anima. Ho bisogno di stare solo in una stanza davanti ad un foglio bianco e scrivere. La scrittura impone disciplina, e se a fine giornata non sono riuscito a produrre un certo numero di pagine la mia coscienza non è placata. Io sono i miei libri”. Una dichiarazione significativa e tale da racchiudere in sé una densità profonda che ci porta ad affermare con convinzione che Pamuk e la scrittura costituiscono un’unica identità, all’interno della quale i confini tra il sé e la parola scritta scompaiono progressivamente fino a dissolversi.

“Quando si scrive – ha concluso alla fine – si ama di più l’umanità, perché è possibile riuscire a cogliere i dettagli, a conoscere vite, culture e identità. La scrittura aiuta a cambiare il mondo”. E crediamo, dopo queste parole, che non ci sia verso la scrittura dichiarazione d’amore più bella, sincera e possente.