“THE ROAD TO GUANTANAMO” di Michael Winterbottom e Mat Whitecross

I tre di Tipton

Concorso
Con “The road to Guantanamo” Michael Winterbottom torna in concorso alla 56a edizione del Festival di Berlino dopo l’Orso d’oro del 2003 per “In this world”.
La pellicola, politicamente impegnata, riporta i fatti dei così detti “Tre di Tipton”, i tre musulmani inglesi catturati in Afghanistan e rinchiusi nel carcere di Guantanamo per due anni, sin quando furono rilasciati senza nessuna imputazione. Un mix di servizi autentici, interviste ed elementi di fiction, il film è stato realizzato per la televisione (Channel 4).

I fatti. L’incubo di Shafiq, Asif e Ruhel comincia nel settembre 2001. I tre ragazzi si recano in Pakistan per assistere al matrimonio di alcuni parenti. All’inizio dei bombardamenti varcano il confine per dare una mano alla popolazione afgana, ma nessuno dei tre nutre simpatie estremiste: sono tre ragazzi occidentali con le guance rasate e i vestiti alla moda, pericolosamente visibili nell’Afghanistan in guerra. L’avanzata dell’Alleanza del Nord li intrappola nella città di Kunduz, dove vengono catturati dalle truppe del generale Dostum. Fu così che i tre di Tipton si ritrovano a far parte di quell’immensa massa di prigionieri che l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite cerca di rintracciare da almeno due anni. Trenta, trentacinquemila persone sono state fatte marciare attraverso le montagne e il deserto. «Abbiamo visto le fosse comuni» ha raccontato Rasul «Ho pensato che ci avrebbero ammazzato tutti».

Mentre la famiglia bussa all’ambasciata per avere notizie, i ragazzi quasi muiono di fame nel carcere afghano di Sherbargan. Il trasferimento nel centro di detenzione statunitense di Kandahar migliora solo l’alimentazione: gli interrogatori, con annessi pestaggi, sono diventati una routine. Ogni giorno i prigionieri vengono fatti stare per ore nudi e incatenati nella neve, poi vengono perquisiti a fondo – ovvero quasi stuprati – e interrogati con la pistola alla tempia. Mentre l’Ambasciata britannica sostiene di non avere alcuna notizia, i tre vengono interrogati da ufficiali inglesi dei corpi speciali. Poi, il 13 gennaio 2002, viene fatta loro indossare la divisa arancione di Guantanamo, con annesse catene.

Questo docu-drama ci permette di rivivere, in modo estremamente verosimile, le torture fisiche e psicologiche subite dai tre ragazzi pakistani. Per giorni sono stati tenuti ammanettati, bendati e in ginocchio nella polvere, poi sono stati messi nelle gabbie aperte alle intemperie. «Era proibito parlare con chiunque» ricorda uno dei tre «Ogni occasione era buona per assestarti un calcio. Ci volle circa una settimana per ottenere lenzuoli, asciugamani e il permesso di parlare col vicino di cella». Chi violava le regole passava per la Estreme Reaction Force, la squadra anti-sommossa specializzata in pestaggi. E bastava poco: «Una volta sono stato punito perché cantavo» ha aggiunto Rasul. Winterbottom cerca di sfuggire qualsiasi etichetta antiamericana o anti-Bush. Il motore principale della pellicola rimane la volontà di documentare un fatto straordinario capitato a tre persone comuni. Testimoniare nella maniera più diretta possibile i fatti avvenuti a Guantanamo. Sottolineare quanto perversi siano certi meccanismi del sistema poltico e quanto bizzarre possano essere certe storie.

Questo è stato il punto di partenza dell’intero lavoro. Il co-regista Mat Whitecross ha intervistato Shafiq, Asif e Ruhel per circa un mese. Ne sono uscite 650 pagine. Questo singolo elemento dovrebbe bastare per capire la difficoltà nel sintetizzare, attraverso le immagini e la sceneggiatura stessa, i punti salienti dell’operazione cinematografica. Estremamente riuscita la sovrapposizione tra il livello di realtà (dato dalle testimonianze dei tre) e quello della fiction (la ricostruzione dei fatti attraverso dei veri attori). Convince, inoltre, la scelta di utilizzare, per tutta la durata del film, una doppia prospettiva. Quella dei media e della stampa che riporta un certo tipo di fatti e quella dei ragazzi che è sostanzialmente opposta. Lo schiaffo che viene dato al “sistema” supera la potenza del grande schermo e ha la capacità di lasciare un forte senso di risentimento anche allo spettatore più distaccato e indifferente.

Regia: Michael Winterbottom, Mat Whitecross
Attori: Farhad Harun (Ruhel), Arfan Usman (Asif), Riz Ahmed (Shafiq Rasul), Waqar Siddiqui (Monir), Shahid Iqbal (Zahid)
Fotografia: Marcel Zyskind
Musiche: Harry Escott, Molly Nyman
Montaggio: Michael Winterbottom, Mat Whitecross
Prodotto da: Michael Winterbottom, Andrew Eaton, Melissa Parmenter per Revolution Films, Screen West Midlands