“Ho sentito il profumo di lozioni abbronzanti su quasi dieci tonnellate di carne umana bollente. Ho tenuto il ritmo di due quarti puntando il dito verso il cielo esattamente sulla stessa disco music sulla quale odiavo puntare il dito verso il cielo nel 1977. Ho imparato come si allaccia il giubbotto salvagente sopra lo smoking e ho perso a scacchi con una bambina di nove anni”.
David Foster Wallace, classe 1962, è la “cosa nuova” della letteratura contemporanea, americana ed internazionale: dopo aver letto questo libro/guida/vademecum/diario di bordo ante litteram (che lo si chiami come si preferisce, ma che lo si chiami e, soprattutto, che lo si legga) se ne comprende anche il, più che meritato, perché.
Apripista nel panorama letterario italiano della produzione wallaciana,“A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again” nasce come reportage per la rivista “Harper’s”: 3000 dollari per aggiudicarsi l’estro creativo nascente e far mettere nero su bianco sette giorni di lusso sfrenato su e giù per i Carabi, a bordo di un transatlantico del piacere esagerato e del divertimento organizzato. Ma l’articolo è, per fortuna, sfuggito di mano al suo legittimo proprietario, diventando un gustoso pamphlet degli eccessi moderni, una summa di kitch vacanziero dove il meglio e il peggio della nostra società “produci-consuma-butta” vengono mostrati senza mezzi termini, con tutta l’ironia di cui Wallace è capace (molta, a dir la verità, se è riuscito a presentarsi ad una cena di gala con tanto di smoking disegnato sulla maglietta).
Nelle 136 pagine, vorticose come un film di Peter Sellers, sfrenate come un disco dei Clash, assuefanti come pistacchi, vediamo sfilare davanti ai nostri occhi vizi e virtù(?) dell’americano medio, quello che più medio non si può, quello che crediamo essere solo un vano pregiudizio, figlio di stereotipi privi di veri fondamenti; invece no, l’americano medio esiste: e ci assomiglia incredibilmente. Ancor più medio, poi, se messo in condizioni di lasciar andare freni inibitori e stress da vita moderna: l’Americano Medio in Vacanza.
Wallace, dall’alto della sua agorafobia, non si perde nulla dello spettacolo croceristico: dallo staff iper-protettivo ai viaggiatori iper-viziati, dal divertimento massificato e programmato in singolo, minimo particolare, alle uscite “capronesche” ad ogni attracco (pantaloncini, camicia a fiori e macchina al collo), la vacanza per eccellenza viene passata sotto impietosi e comicissimi raggi x. Wallace osserva questo strano assembramento di umanità con gli occhi di un marziano appena caduto sulla terra, più stupito e desideroso di capire che critico: o meglio, i suoi giudizi sono così ben collocati, tra una descrizione e una défaillance personale rispetto all’etichetta di bordo, che ci si perde, quasi, nella strabiliante capacità narrativa, più intenti a divertirsi, gustarsi la scena, che a cogliere azzeccate stilettate ad una way of life fatta di abbondanza, eccesso, mancanza di originalità, pigrizia. Quello che ne esce fuori è, paradossalmente, un assurdo quadro del reale, che più reale non si può.
Ci si domanda come un individuo normale, non conformato ai dettami di un sistema che spreme gli individui per poi gettarli come rifiuti, possa non impazzire, nel folle vortice di un’offerta costante e continua, di desideri soddisfatti prima ancora di essere formulati (che si tratti dell’ennesimo asciugamano pulito al decimo pasto della giornata), di una pulizia maniacale e di eventi mondani in cui è richiesto l’abito formale.
Ironia, è la parola giusta, spalmata su tutto e tutti. Per resistere dove si potrebbe anche morire dal divertimento.
D. F. Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax,2006, PP. 143, 11 euro