Alcina, dello specchio e di altri demoni

FIRENZE – Titolo attesissimo, Alcina di Händel arriva per la prima volta al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dal 18 al 26 ottobre nell’allestimento del Festival di Pentecoste di Salisburgo 2019 curato da Damiano Michieletto. Nel ruolo protagonista c’è la star Cecilia Bartoli che, per una laringite di stagione, dopo la prima del 18 ha dovuto saltare le recite del 20 e del 22 ottobre, ritornando sul palco il 24 e il 26.

Dopo Orlando (1733) e Ariodante (1734), Alcina (1735) è estetica barocca pura, dove il meraviglioso, l’esuberante, lo stupore e il fantastico dominano il libretto e, a quel tempo, anche il palco tramite l’ausilio di complesse macchine sceniche. Di quelle leziosità, artificiosità e speciosità tipiche del Barocco non c’è traccia nelle scelte di Michieletto che fa pura poesia teatrale. Il regno di Alcina è un cupo hotel, abbozzo di dramma borghese, in cui Morgana e Oronte sono rispettivamente receptionist e facchino. Alcina, prima che maga, è donna tormentata da sentimenti contrastanti e dal presagio della morte che l’attende, oltre che dal ricordo della sua infanzia. Difficile non essere dalla sua parte perché ha le arie più belle di tutta l’opera che, ritraendola nella sua piena complessità, la rendono oggettivamente superiore. Lo sguardo di Michieletto si sofferma sul progressivo venir meno dei poteri di Alcina, culminato nella liberatoria rottura dello specchio magico, per antonomasia simbolo delle streghe, e sui complessi intrecci che legano i personaggi, tra pietas familiare, gelosia e malinconia.

In questo gioco reciproco di inganni si rivela fondamentale la scena completamente nera creata da Paolo Fantin, come scuri sono i costumi di Agostino Cavalca. Una parete rotante semitrasparente definisce il confine tra realtà e sogno, dove vivono i molti “prigioni” amanti, si perdoni la licenza michelangiolesca (d’altronde siamo a Firenze), che le coreografie di Thomas Wilhelm vogliono ora ammucchiati accanto a un letto o ai comandi di Alcina. Ai lati, una sfilza di neon, come avevamo visto nel Macbeth (2018) di Venezia, e all’estremità sinistra uno specchio, da cui entra ed esce Alcina. Il taglio basso fortemente orizzontale ben si adatta al palcoscenico dell’Auditorium fiorentino, relegando l’azione in uno spazio contenuto che permette una maggiore concentrazione sull’animo dei personaggi. Alcuni tagli, spostamenti di scene e arie, conferiscono maggior senso e respiro alla storia, complice anche l’efficace disegno luci di Alessandro Carletti, soprattutto nel secondo atto durante la rabbia di Alcina, e i video di Rocafilm/Roland Horvarth.

E’ pressoché perfetta la direzione di Gianluca Capuano, con Les Musiciens du Prince-Monaco, che trova belle invenzioni dinamiche, mantenendo altissimo il ritmo del racconto che vive anche di pause e silenzi funzionali alla scena. La sua lettura si arricchisce di particolari libertà nelle cadenze e nei da capo, colorandosi ora di accenti plastici tangibili ora di sfumature quasi impalpabili, in perfetto accordo con la regia e le luci.

La diva Bartoli è stata sostituita da Marie Lys, piacevolissima scoperta, soprano completamente a suo agio nel ruolo eponimo. Dal discorso amoroso di «Di’, cor mio, quanto t’amai» e «Sì, son quella», in cui dimostra omogeneità dei registri, ottima tenuta dei fiati e padronanza del fraseggio, passa con estrema sicurezza e trasporto al dolore di «Ah, mio cor!», acme drammatico tutto giocato su ritmi assai taglienti imposti da Capuano. «Mi restano le lagrime», struggente finale, corona un’interpretazione indimenticabile.

Carlo Vistoli è Ruggiero sfaccettato, ricco di contrasti, ben restituiti da una linea di canto saldissima e disinvolta sia nei momenti più elegiaci che nelle agilità di forza. Dopo ore di arie languide, insinuanti e pensose, si libera in «Sta nell’Ircana» dimostrando vero estro pirotecnico.

La Morgana di Lucía Martín-Cartón è ben risolta, seppur risenta di qualche fissità e acuti a tratti puntuti. Kristina Hammarström, Bradamante, ha voce non molto corposa, ma affronta con piglio deciso il personaggio. L’Oronte di Petr Nekoranec, tenore dal bel timbro caldo e dal fraseggio seducente, si ritaglia momenti importanti, anche scenicamente, in «Semplicetto» e «Un momento di contento». Corretto e di altro profilo il Melisso di Riccardo Novaro. Oberto è un solista del Wiltener Sängerknaben di Innsbruck, voce bianca a cui sono affidate ben tre arie che, al netto dell’età, sono state eseguite con notevole bravura.

Successo per tutti alla recita del 22 ottobre, con consensi calorosi per Capuano, Vistoli e Lys. E’ consolante constatare la presenza di una sala quasi al completo, attenta e genersoa di applausi a scena aperta e ricca anche di giovanissimi spettatori che non si sono fatti intimidire dalle quattro ore di durata.

Luca Benvenuti